letterina 20120414

Trasgressione

Credo che, in questi tempi, la più grande trasgressione sia proprio essere cristiani. La via della fede, infatti, è una straordinaria via di liberazione e di sapienza. In questo mondo appiattito sulla banalità mediatica e sulla negazione della persona, il cristianesimo è un cammino verso la totalità dell’essere, verso la sua vera libertà che consiste nel fare emergere la parte divina presente in ognuno di noi. Chi segue il cammino della fede non rincorre la felicità saltellando qui e là come un cacciatore di farfalle, ma vive la gioia interiore in ogni momento della sua vita, anche nei più drammatici, perchè la dimensione del Regno non è quella di un ipotetico aldilà, per cui si raccolgono i punti collezionando buone azioni, ma la costruzione di ogni istante, di ogni rapporto nella luce profonda dell’amore.
La sapienza ci dice che sono sempre due i modi di fare le cose: uno in armonia con le leggi del creato e uno contro.
Si può edificare una casa sulla roccia o costruirla sulla sabbia. Esteriormente possono essere uguali, ma alle prime piogge la seconda crollerà, provocando distruzione e morte, mentre la prima resterà in piedi, proteggendo i suoi abitanti.
Questo vale per tutte le cose. In qualsiasi rapporto, in qualsiasi attività noi intraprendiamo abbiamo, alla fine, sempre e soltanto due strade davanti a noi.
Si può vivere per il possesso o si può vivere per l’amore. Si può vivere con il nostro orizzonte ristretto, convinti che sia l’assoluto, o si può accettare con umiltà di avere una visione limitata, e che, in questa visione, la vita appaia ora, come apparirà sempre, uno straordinario mistero che proprio in quanto tale richiede assoluto rispetto.
E’ questo il bivio davanti a cui si trova il nostro mondo. Continuare nella follia faustiana del tutto è possibile e lecito o fermarsi e invertire la rotta. Distruzione e salvezza sono entrambe nelle nostre mani. A noi la responsabilità della scelta.

Da Susanna Tamaro, L’isola che c’è

 

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letterina 20120407

Non è una follia

Non è mai stato facile annunciare che Gesù, condannato e messo a morte mediante il supplizio della croce, dopo tre giorni è risorto ed è vivente per sempre. E’ follia più grande dello stesso annuncio della croce, perché la croce è opera degli uomini e perché croci e calvari sono stati presenti di generazione in generazione nella storia dell’umanità, mentre la risurrezione non può essere che opera di Dio. Follia, dunque: follia per chi non ha la fede, questo dono che fa aderire a Gesù, l’uomo di Nazaret mandato da Dio, fa sperare in lui, lo fa amare.
La follia di questo annuncio emerge anche e soprattutto in questi giorni in cui tantealtre guerre insanguinano la terra. Follia che emerge anche ogni volta che nella nostra personale vicenda siamo colpiti dalla morte, dalla sofferenza, da situazioni cariche di non senso. Che cosa sperare nell’orizzonte dell’umanità? La grande tentazione è il cinismo e la repressione di quei sentimenti di speranza che stanno nel profondo del cuore di ogni uomo! Si può ancora cantare che Cristo è risorto e che, quindi, la morte è stata vinta? Che l’odio e la violenza non solo l’ultima realtà?
Sì, è possibile, e comunque nel cuore dei cristiani Risurrezione è parola forte, che sale dal profondo e vince ogni dubbio, ogni esitazione, ogni evento che sembra contraddirla.
Questa è la fede cristiana: esperienza della forza della risurrezione che è poi la forza di Dio, il Dio della vita e dell’amore. Risurrezione è la parola incontenibile, e il cristiano sa che, come diceva San Paolo, se Cristo non è risorto, allora i cristiani sono i più miserabili degli uomini, degni solo di essere compianti.
Certamente ogni cristiano, vedendo la morte all’opera in mezzo agli uomini ed esperimentando la morte all’opera anche nel proprio corpo, soffre la contraddizione, conosce il timore e a volte l’angoscia, portandone tutta la sofferenza. Ma proprio perché il suo Signore è risorto e vivente, egli si sente chiamato a diventare – come si diceva dei primi cristiani – “uno che non ha paura della morte”, uno che può giungere a chiamarla “sorella morte” perché in essa incontra Cristo, il Risorto che, a braccia aperte, è pronto ad accoglierlo anche sulla soglia degli inferi per condurlo alla vita eterna.

Enzo Bianchi

 

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letterina 20120331

Cristiani, mai contro

Quando si parla delle persecuzioni contro i cristiani, soprattutto in Paesi come il Pakistan dove vige la legge contro la blasfemia, viene spontaneo chiedersi come sia possibile che nel 2012, avvengano ancora simili misfatti contro Dio e contro l’uomo...D’altronde, a chi poteva aver nutrito l’illusoria convinzione di potersene stare in pace dopo il battesimo, è bene rammentare che il segno più qualificante dell’identità cristiana è la persecuzione. <<Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. >> (Mt 5,11-12). Sebbene la persecuzione sia, umanamente parlando, una sventura, nella fede essa rappresenta la parresìa di molte comunità cristiane presenti oggi in Africa, in Asia e, soprattutto, in Medio Oriente. La parassìa è un termine greco antico che indica, in generale, la loquacità e, più in particolare, la libertà di parola, la franchezza, l’imparzialità di discorso e di giudizio. In una sua celebre lettera, don Tonino Bello, scriveva che la parresìa <<è il parlare chiaro, senza paura, difronte alle minacce del potere…. con tutta franchezza e senza impedimento. Senza peli sulla lingua. Senza sfumature per quieto vivere. Senza mettere la sordina alla forza della Verità>>...Se da una parte è comunque doveroso che i cristiani si sentano sempre solidali con le comunità cristiane presenti nei Paesi più a rischio, è altresì giusto ricordare che non è aderente allo stile evangelico schierarsi contro qualcuno, tanto meno contro una religione. L’identità del cristiano è dialogica, fondata sull’impronta trinitaria di Dio, presente in ogni uomo. Ne consegue la ricerca con tutti di un terreno comune per vivere e lavorare insieme. Gesù Cristo ha chiesto agli apostoli di sostituire i rapporti di forza con l’affermazione dell’amore, quelli del dominio con quelli del servizio, quelli dell’interesse con quelli della generosità. Don Tonino Bello chiedeva: <<Se essere cristiani fosse un delitto, e voi foste condannati in tribunale accusati di questo delitto, riuscireste a farvi condannare?>>. Chissà, forse molti di noi, per mancanza di testimonianza, commentava provocatoriamente don Tonino, sarebbero prosciolti da ogni addebito, senza ulteriore rinvio a giudizio, per insufficienza di prove.

Da un articolo di Giulio Albanese, sul Messaggero di S. Antonio, recapitato da un partecipante alla messa di Domenica

 

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letterina 20120324

Cuori che si allontanano

In Quaresima, con gli adolescenti, facciamo un momento di preghiera nel quale riflettiamo sul Vangelo della settimana, abbinato alla scultura di Defendi e ad un racconto. Ne proponiamo a tutti uno che ci ha fatto pensare.
 
Un giorno un vecchio saggio fece la seguente domanda ai suoi discepoli:
"Perché le persone gridano quando sono arrabbiate?".  
"Gridano perché perdono la calma", rispose uno di loro.  
"Ma perché devono gridare, se la persona sta di fianco a loro?", disse nuovamente il pensatore. "Bene, gridiamo perché desideriamo che l'altra persona ci ascolti", replicò un altro discepolo.  
E il maestro tornò a domandare: "Allora non è possibile parlargli a voce bassa?".    I discepoli diedero varie risposte ma nessuna convinse il vecchio saggio.
Allora egli esclamò: "Voi sapete perché si grida contro un'altra persona quando si è arrabbiati? Il fatto è che, quando due persone sono arrabbiate, i loro cuori si allontanano molto. Per coprire questa distanza bisogna gridare per potersi ascoltare. Quanto più arrabbiati sono, tanto più forte dovranno gridare per sentirsi l'uno con l'altro. D'altra parte, che succede quando due persone sono innamorate? Loro non gridano, parlano soavemente. E perché? Perché i loro cuori sono molto vicini. La distanza tra loro è piccola. A volte sono talmente vicini i loro cuori che neanche parlano, solamente sussurrano. E, quando l'amore è più intenso, non è necessario nemmeno sussurrare, basta guardarsi. I loro cuori si intendono. E' questo che accade: quando due persone si amano, si avvicinano!".  
Infine il vecchio saggio concluse dicendo: "Quando voi discuterete, non lasciate che i vostri cuori si allontanino, non dite parole che li possano distanziare ancora di più, perché arriverà un giorno in cui la distanza sarà così tanta che non incontreranno mai più la strada per tornare".

 

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letterina 20120311

In principio l'amicizia  

In principio non c’è la preghiera. In principio c’è l’amicizia: <<Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perchè è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli” ... vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perchè è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono>> (Lc 11,5-8). Sulla bocca di Gesù, l’amicizia è maestra di preghiera, <<amico>> è un nome di Dio, l’orante è l’amico del genere umano. In principio non c’è la preghiera, ma la vita: la carezza della gioia, la pressione del dolore, la fame di pane e di senso. Da qui nascono la supplica o la lode.  
Gesù racconta la preghiera come la vicenda di tre amici nella notte. Il primo esce di casa, è mezzanotte, cammina fino alla casa di un amico e bussa. Non chiede per sè, ma per un terzo amico che a sua volta ha camminato nella notte, guidato  dalla bussola del cuore:<<Amico, dammi del pane, perchè è arrivato un amico>>.  Bellissima questa circolazione d’amicizia, che ti porta ad amare perfino la notte, popolata non da paure ma da affetti. Ed ecco che nella parabola, nel sogno di Gesù, questo mondo e le sue notti, ricche di amici, povere di cose, si coprono di una rete di strade che ci portano da casa a casa, da cuore a cuore. Il cuore si copre di una rete di significati buoni.                     
Ma anche di gesti concreti. La preghiera, infatti, si articola su due verbi: chiedere e dare. Chiedere è il verbo della nostra povertà che va in cerca della ricchezza dell’Amico. Dare è il verbo umile e forte con cui sempre nel vangelo si traduce il verbo <<amare>> (non c’è amore più grande di chi dà la vita...). L’amico chiede per dare, per essere nella vita datore di vita. La preghiera, come l’amore, apre il circuito del dono.          
Il mendicante di pane non si vergogna della sua povertà: davanti a Dio ho il diritto di essere debole e povero; posso tendere in alto le mani, nel gesto di cerca di aggrapparsi alla roccia perchè sta per essere sommerso dalle acque, proprio perchè non sono forte.
Se essere debole fosse una colpa, non avrei neppure il diritto di pregare. Povertà è l’occasione, amicizia è condivisione: prego perchè amo, prego perchè sono povero.             
Chiedere il pane significa chiedere ciò che ci fa vivere e che ha i suoi granai nella casa di Dio.  

da Ermes Ronchi: Come un girasole

 

 

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letterina 20120317

Giusto e Santo 

Caro San Giuseppe,
come ben saprai nella nostra chiesa hai un posto particolare. I nostri nonni ti hanno voluto ricordare come papà e come lavoratore. Il bimbo in una mano e nell’altra gli attrezzi del tuo lavoro. Come se le due cose potessero restare unite.
Come se la tua presenza potesse rassicurare che il percorso del diventare grandi è possibile.
Ma in queste due caratteristiche vediamo anche il Santo e il Giusto.
Ascolta: Ci pare esserci una differenza netta tra il santo e il giusto.
Il santo rappresenta un’eccezione: la trascendenza irrompe nella sua vita e la sconvolge, la stigmatizzazione del santo è il segno di questa radicale trasformazione, non più io ma Dio che vive in me (cf. Gal 2,20). Il giusto invece può rappresentare la regola perché giusti possiamo esserlo tutti. Il giusto tuttavia non è una specie di santo laico, un eroe della patria, l’alternativa di una religione fondata solo sull’uomo. Abramo “credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia” (Gen 15,6). La giustizia del giusto è fondata sulla fede. Qui non si tratta solo della giustizia distributiva, della giustizia dell’equità di cui pure l’uomo ha bisogno. Ma di una giustizia superiore (cf. Mt 5,20) che ti fa perdonare laddove la legge richiederebbe una pena, che ti fa amare laddove saresti portato a odiare. Non c’è giusto che abbia solo amministrato il suo capitale e che non abbia anche investito i suoi talenti, che non abbia rischiato, che non ci abbia anche rimesso e perso, non c’è un giusto che non abbia anche – non una volta, ma cento volte - scommesso nella sua vita su Dio.
Di questi giusti c’è bisogno: disposti al sacrificio, alla donazione di sé, uomini capaci di sperare e di credere, non freddi calcolatori, amministratori questi sì davvero “ infedeli” di una grazia che a loro oggettivamente non appartiene.
In te, San Giuseppe, noi guardiamo il Santo e il giusto: le due cose insieme.
Grazie allora, perché ci ricordi che la grazia può fare del carpentiere un capolavoro di giustizia e di santità. Può fare anche di noi, se vogliamo, persone che tengono tra le mani gli attrezzi di lavoro e il Bambino Gesù.

 

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