letterina 20120526

Perchè serve un giorno di festa

Le polemiche sull’apertura di negozi e centri commerciali alla domenica e nelle festività civili come il 25 aprile o il 1° maggio ci porta a riflettere su una delle grandi conquiste registratesi in occidente, grazie soprattutto all’ebraismo e al cristianesimo: l’affermazione di un giorno settimanale - il sabato per gli ebrei, il giorno dopo, la domenica, per i cristiani - come giorno di riposo per tutti, tempo di festa condivisa e anche di assemblea per i credenti, che insieme confessano la loro fede e celebrano il culto al Signore nel quale mettono la loro speranza. Un giorno di tregua al neg-otium, al tempo che «nega l’ozio», per dedicarsi appunto all’ otium che non è il «far niente» della pigrizia, ma una presa di distanza dalla propria opera, un antidoto all’alienazione possibile anche nel lavoro... Oggi sentiamo invece ripetere con enfasi le ragioni economiche : occorre dinamizzare l’economia, incentivare i consumi, ottimizzare l’utilizzo delle strutture... Ma avere un giorno di festa condiviso non risponde solo al bisogno di riposo, ma alla necessità umana di riconoscere e sottolineare motivi comuni per fare festa insieme:
ricorrenze religiose, certo, ma anche festività civili, memorie di eventi che hanno segnato la storia di una società. Se viene a mancare il giorno di festa per tutti, la stessa coesione civile ne è intaccata, le leggi commerciali diventano più forti delle dimensioni conviviali e relazionali, delle famiglie, delle amicizie, delle esigenze spirituali non solo dei credenti, ma di quanti pensano e cercano vie di umanizzazione:
la società è sempre più atomizzata... Costruire se stessi, aver cura di se stessi e di quanti ci sono cari, vivere la propria storia d’amore facendo cose insieme, vedendo cose insieme, scrutando insieme orizzonti nuovi e antichi è assolutamente necessario: ne va della qualità della vita. Davvero la festività condivisa è strumento per l’umanizzazione di ciascuno, credente o no...Se i cristiani ripetono le parole degli antichi martiri: «Senza domenica non possiamo vivere!», assieme agli altri uomini possono affermare: «Senza riposo e senza un giorno di festa per tutti non possiamo vivere!».

Enzo Bianchi

 

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letterina 20120519

Tavola e comunione

Se c’è “casa”, molte cose ruotano attorno alla tavola. Anzitutto si strutturano intorno ad essa i “riti del pasto”, delicatissime soglie di dipendenza e di comunione, di con-vivenza e di autosostentamento. La comunione e la comunicazione si intrecciano: mangiare e parlare, parola e pasto sono analoghi e correlati. Il pasto solitario o la parola che non si lascia nutrire dall’altro, sono degenerazioni dell’esperienza familiare, oggi intaccata profondamente dalle pratiche televisive e dalla divisione dei tempi di lavoro. La “pausa pranzo” non riesce mai ad essere pienamente festiva: ma un pranzo ridotto ad autosostentamento significa mangiare la propria condanna. Le tradizioni monastiche hanno percepito la delicatezza di questa soglia, trasformando il pasto in un atto di ascolto silenzioso. Il pasto intorno alla tavola è un surplus comunicativo, tanto necessario quanto la funzione elementare del “mantenersi in vita”. Ma la fame, nell’uomo, non è quella “di solo pane”. Chi mangia insieme vive insieme, e, reciprocamente, per vivere insieme bisogna mangiare insieme. Intorno alla tavola si gioca una parte non secondaria della nostra “convivenza”. Anche quando alla tavola giunge l’altro, l’ospite, lo straniero.
D’altra parte invitare alla propria tavola (l’invito a pranzo) è un terreno delicatissimo di relazioni che cambiano... Nel mangiare presso qualcuno facciamo l’esperienza di “ringraziare per la vita donata”. Solo a mani vuote posso entrare nella logica di “totale dipendenza” dall’altro. La cura per l’accoglienza dell’ospite comincia sempre da una preparazione di cibi, perché possa sostentarsi a suo agio. Percepire la tavola di una casa come luogo delicato e prezioso in cui la comunione verso l’interno e verso l’esterno si gioca nel “presentare e consumare cibi” costituisce una risorsa decisiva per la vita spirituale.
Proprio perché elementare, ha bisogno di un grado superiore di attenzione e di esercizio, in cui dar prova di virtù e di stile.
Anche nella festa di Prima Comunione c’è qualcosa di tutto questo...

 

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letterina 20120512

Ai piedi di Dio (2)

Il secondo termine è <<supplica>> (il primo era preghiera, sulla Rina scorsa)
La radice latina del termine (plec) si esprime in un verbo, plecto, in cui è contenuta l’idea di piegare, e che dà origine a numerosi aggettivi: sem-plice, piegato una volta sola; du-plice, piegato due volte; com-plice, piegato insieme, legato, implicato. A questo gruppo appartiene anche il termine sup-plice, che indica colui che è piegato ai piedi di ...
Supplicare vuol dire allora prendere la posizione del supplice, di colui che si china per toccare i piedi o le ginocchia di una persona. Lo si capisce da un’usanza di guerra che conosciamo attraverso l’epopea omerica: colui che, incalzato dal nemico, sta per essere ucciso, deve, per aver salva la vita, cingere le ginocchia del suo avversario prima che l’altro, nella foga della battaglia, l’abbia ferito. Arrivare a toccare le ginocchia voleva dire aver salva la vita.
Salvezza della vita è toccare Dio, piegarsi insieme a lui, intrecciarsi con lui.
La preghiera non consiste quindi in una seria di richieste, ma nel toccare Qualcuno che, a ogni mia supplica, si piega su di me, intreccia il suo respiro con il mio respiro, i suoi passi con i miei passi. Non so se Dio esaudirà, ma so che è coinvolto, è implicato. Ed è salva la vita.
Tutte le storie di salvezza nascono da una frattura che grida di essere ricomposta, da una lontananza che domanda di essere annullata. La preghiera porta in sè l’eco di una domanda di matrimonio, una radice di comunione; la supplica è chinarsi fino a toccare i piedi di Dio, e vederlo implicato nel mio andare e respirare.
Un giorno alcuni discepoli chiesero al loro maestro: <<Perchè una volta i santi parlavano con Dio faccia a faccia e oggi più nessuno riesce a vedere il suo volto?>>. Rispose il maestro: <<Perchè oggi nessuno sa più chinarsi così profondamente. Sul proprio intimo>>.

(da: Come un girasole di E. Ronchi)

In questa settimana abbiamo le GIORNATE EUCARISTICHE un’occasione
per vivere la PREGHIERA e la SUPPLICA...
Metti in cantiere un tempo di ADORAZIONE.

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letterina 20120505

Ai piedi di Dio (1)

Gli uomini sono andati a cercare lontano, molto lontano, le parole più adatte per esprimere il senso della preghiera. Le hanno cercate dalla parte della vita e non dei concetti. Studiare la radice e l’origine delle parole è come perforare strati successivi di stori, risalire il fiume dei millenni fino a giungere al momento sorgivo.
Così accade con due parole legate all’esperienza religiosa universale:
<<preghiera>> e <<supplica>>.

La parola <<preghiera>> deriva da una radice latina (prex) che indica una domanda fatta per ottenere qualcosa.
La sorpresa nasce quando cerchiamo di intuire che cosa esattamente soggiace alla domanda.
Ce lo rivela il termine latino procus, che ha la medesima origine: si tratta di colui che rivolge una domanda – preghiera al padre di famiglia, una richiesta particolare:
chiede una figlia in matrimonio. L’obiettivo del procus, lo scopo della sua richiestapreghiera non è ottenere delle cose, ma raggiungere una persona. E non una persona qualsiasi, ma la persona amata. La parola preghiera ha radici fragranti che parlano di qualcosa – una donna, una figlia, una creatura, un Dio- che piace al punto tale da volersi unire a esso; racconta di una ricerca amante, di una bellezza desiderata, di un eros primigenio fuoco e forza della vita. All’origine della parola preghiera, allora, affiora l’eco di un innamoramento, che è un’esperienza mistica allo stato selvatico, forse l’unica esperienza mistica che a tutti, in qualche modo e in qualche tempo della vita, è dato di compiere. E in cui echeggia il vangelo: <<Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito>> (Gv 3,16). Gli uomini hanno sentito che l’esperienza d’amore e l’esperienza del sacro sono strettamente legate e lo hanno espresso adottando il medesimo vocabolario. Come è accaduto per il Cantico di Cantici, dove il racconto dell’amore tra un uomo e una donna diventa la narrazione dell’amore tra Dio e la creatura. <<Guarda con amore alla tua chiesa>>, prega la liturgia. Guarda con amore, nient’altro, ma è già tutto.

(da: Come un girasole di E. Ronchi)

Continua la prossima settimana con “supplica

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letterina 20120428

Nel calcio comanda il ricatto

Adesso, forse, tutti hanno capito chi comanda in quel mondo lì.  
Se ancora non era chiaro, se ancora serviva qualche plastica dimostrazione, ecco serviti anche i soggetti dotati di comprendonio particolarmente resistente. Nel calcio comandano loro. Nel calcio comanda il ricatto degli ultrà. Comanda sui giocatori, comanda spesso sui presidenti, comanda talvolta sui giornalisti. Un ricatto non sempre violento e manifesto, alla luce del sole e persino senza passamontagna, come quello di ieri a Genova, culminato con l’umiliazione pubblica del calciatore reo di perdere una partita, finanche di perdere un campionato. E allora via le maglie, perché nel calcio comandano loro, e sono loro a stabilire chi è degno di indossare quella maglia, e chi non lo è.
Via quelle maglie, lì in mezzo al campo, altrimenti vedi che succede. È il ricatto della violenza. È il ricatto della paura, che fa cedere perché poi lì non c’è solo la feccia, ci sono i papà coi bimbi, la maggioranza non contaminata, e non puoi mai sapere come va a finire.                                                                               
Adesso forse avranno tutti capito come funziona in quel mondo: è una logica di puro potere, di pura visibilità, di puro spazio d’azione guadagnato passo dopo passo. È una logica – se l’accostamento non scandalizza – politica e mafiosa. Cos’hanno ottenuto i tifosi del Genoa? La vittoria sul Siena? No, anzi: otterranno forse la serie B. Ma ora è chiaro che lì non comanda un presidente, non comanda un capitano e nemmeno uno straccio di questore. Comandano loro: retrocessi, ma temuti e rispettati.  
E tra le due, la priorità è questa: è si tifo, ma c’è chi ci campa.                                               
È la resa, questa giornata. Perché puoi controllare tasche e giubbotti, ma i cervelli no.
Puoi mettere tornelli su tornelli, puoi approvare tutte le leggi più restrittive. Ma in questo calcio ci sono armi che colpiscono più dei randelli, più delle coltellate. Sono le idee. È quel fanatismo strisciante che dice di odiare il calcio moderno, ma in verità odia tutto quel che non è come lui. È quell’imbottitura di ideologia blaterante di rispetto e onore, ma che finisce per rispettare solo il simile, vestito delle stesse strisce.  
Il resto, carne da macello.                   
Pensateci. Otto giorni fa il calcio si era fermato, la morte di Piermario Morosini aveva persino creato una bolla d’illusione, quelle sciarpe da sempre nemiche, ma per un giorno sorelle, ci avevano fatto sperare che un fiore nuovo potesse nascere. Otto giorni dopo, capiamo l’errore. Umiliata, anche quella speranza.

Da un articolo di Roberto Belingheri de L’Eco di Bergamo, 23 aprile 2012

 

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letterina 20120421

Meglio oggi

Domani non avrà più nove anni.  
Domani non lo potrai più abbracciare e stringerlo forte forte, e cosa non faresti!  
Domani non ti chiederà più di rotolarti sull’erba, e lo vorresti così tanto!
Domani non verrà più a dormire sul letto con te, ed è giusto così!  
Domani uscirà con un’altra donna e non sarai più tu l’unica, ed è bene così!  
Domani non gli racconterai più le storie dei maghi e delle fate.  
Domani non vorrà più fare i compiti con te, anche se a volte è così pesante!  
Domani non ci sarà più in casa ad aspettarti quando esci, e te ne starai sola!  
Domani non ti chiederà più di preparargli i dolci per la festina di compleanno, perché se ne andrà in pizzeria.  
Domani non lo chiamerai più “il mio bambino”,  perché non sarà più “bambino” e neanche “tuo”.  
Domani? Forse non ci sarà.  
Domani? Forse non ci sarai tu.  
Domani? Forse non ci sarà lui.  
Domani? Meglio oggi!  
Abbraccialo, sorridi, canta, sporcati, oggi.  
Quello che devi fare: meglio oggi.  
Quello che gli devi dire: meglio oggi.  
Quello che puoi vivere: meglio oggi.  
Perché ciò che è perso, è perso.  
Così domani non avrai rimpianti e lo lascerai andare.  
Così domani vivrai il domani perché oggi vivi l’oggi.  
Domani? Meglio oggi.     

da  una mamma per la prima comunione

 

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