letterina 20100725

L'affondo

 Lo straniero

Un’ultima pagina a partire dalle suggestioni del tema del CRE.
La strada diventa spazio brulicante di vita nella quale si incontrano volti diversi (famiglie, ragazzini, giovanotti impomatati…), abbigliamenti variegati, attività umane diversificate (tram, botteghe, un tabaccaio a riposo, un cameriere che tiene pulito il locale…): il tutto in un monotono pomeriggio domenicale. La terra è anche spazio dell’attività dell’uomo che, nella diversità di spazi e di tempi, cerca di dare un senso di qualsiasi genere alla sua presenza nel mondo: passeggiare in famiglia, andare al cinema, riposarsi un poco, custodire il proprio ambiente di lavoro sono strade possibili. Per Camus, l’autore di questo romanzo, sono tutti tentativi vuoti perché nulla può far evadere da un cielo puro ma senza splendore e dalla monotonia di una esistenza che certo non abbiamo scelto e forse subiamo, ma non c’è altra strada per vivere che muoversi, camminare, incontrare, stare sulla soglia della propria bottega… in attesa di trovare chi riempia i nostri vuoti.


Albert Camus, Lo straniero

La mia camera dà sulla via principale del quartiere. Il pomeriggio era bello. Il lastricato era tuttavia umido. I passanti ancora rari e affrettati. Erano in principio famiglie che andavano a passeggio, due ragazzini vestiti alla marinara, coi calzoni più giù del ginocchio, un po’ goffi dentro la stoffa rigida e una bambina con un gran fiocco rosa e delle scarpe nere di vernice. Dietro a loro una madre enorme, vestita di seta marrone, e il padre, un ometto piuttosto esile che conosco di vista. Aveva una paglietta, una cravatta a farfalla e un bastone da passeggio. Vedendolo con sua moglie, ho capito perchè nel quartiere si diceva che era una persona distinta. Un po’ più tardi passarono i ragazzi del sobborgo, coi capelli impomatati e delle cravatte rosse, la giacca molto aderente con un fazzoletto ricamato nel taschino e delle scarpe a punta quadra. Certo andavano nei cinema del centro. Era per questo che uscivano di casa così presto e correvano per prendere il tram, ridendo forte.
Passati loro, la strada è diventata poco a poco deserta. Gli spettacoli dovevano essere cominciati dappertutto. Non c’erano più nella strada che i bottegai e i gatti. Il cielo era puro ma senza splendore, sopra i fichidindia ai lati della strada. Sul marciapiede di fronte, il tabaccaio ha tirato fuori una sedia, l’ha sistemata davanti alla sua porta e ci si è messo sopra a cavalcioni appoggiandosi con le mani allo schienale. I tram poco prima gremiti erano quasi vuoti, nel piccolo caffè “da Pierrot” che è di fronte al tabaccaio, il cameriere scopava della segatura nella sala deserta. Era veramente domenica.

  

 

scarica modulo contributo alla Parrocchia da impresa

scarica modulo contributo alla Parrocchia da privato

letterina 20100718

L'affondo

 Funghi in città

Ancora CRE e ancora una riflessione sul tema della terra.
Raccontando lo scorrere delle stagioni in città percepito dall’animo semplice di Marcovaldo, uomo poco adatto alla vita della metropoli, Calvino immortala un "disadattato" che non ha perso il gusto di lasciarsi trasportare da quello che la natura - il vento in questo caso -  dona ai suoi occhi.
C’è una profonda saggezza nel sapere osservare e mettersi in ascolto di quello che la terra suggerisce con il mutare dei colori, i piccoli insetti inseriti nei pertugi, i segni di vita che abitano spazi inconsueti.
Allora ci si accorge degli spazi di vita dentro e intorno a noi, delle novità che possono riempire le giornate, del tempo che scorre tra sogni e realtà, desideri e realizzazioni concrete, dei colori che si alternano a certi spazi grigi e uniformi. Ci si accorge che nel mutare della natura è iscritto il nostro mutamento, nella ricchezza dei tempi e delle stagioni la nostra ricchezza.


Italo Calvino, Funghi in città (da Marcovaldo, raccolta di novelle, 1996)

Il vento venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui si accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno che starnutono per pollini di fiori d'altre terre.
Un giorno, sulla striscia d'aiola d'un corso cittadino, capitò chissà donde una ventata di spore e ci germinarono dei funghi. Nessuno se ne accorse tranne il manovale Marcovaldo che proprio lì prendeva ogni mattina il tram.
Aveva, questo Marcovaldo, un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto.
Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse a una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marvovaldo non notasse e non facesse oggetto di ragionamento scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo e le miserie della sua esistenza.
Così un mattino, aspettando il tram che lo portava alla ditta SBAV dov’era uomo di fatica, notò qualcosa di insolito presso la fermata, nella striscia sterile e incrostata che segue l’alberatura del viale: in certi punti al ceppo degli alberi sembrava si gonfiassero bernoccoli che qua e là si aprivano e lasciavano affiorare tondeggianti corpi sotterranei.
Si chinò a legarsi le scarpe e guardò meglio: erano funghi, veri funghi che stavano spuntando proprio nel cuore della città!
A Marcovaldo parve che il mondo grigio e misero che lo circondava diventasse d’un tratto generoso di ricchezze nascoste e che dalla vita ci si potesse ancora aspettare qualcosa, oltre la paga oraria del salario contrattuale, la contingenza, gli assegni familiari e il caro pane.

  

 

scarica modulo contributo alla Parrocchia da impresa

scarica modulo contributo alla Parrocchia da privato

letterina 20100711

L'affondo

 La luna e i falò

Il CRE ci suggerisce alcuni approfondimenti letterari sul tema della terra .
Partiamo da Cesare Pavese, con il romanzo "La luna e il falò" (1950).
Anguilla, un trovatello nativo delle Langhe piemontesi, emigrato in America per fare fortuna, ritorna al paese per rivedere i luoghi della sua infanzia. A muoverlo è un profondo e intenso desiderio di radici che vanamente ma ostinatamente rincorre da sempre, perché un paese significa sapere che nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei, resta ad aspettarti. La terra ricorda quindi il bisogno di radici.

"Così questo paese, dove sono nato, ho creduto per molto tempo
che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l’uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e li si portano in Alba. C’è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonci e torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse altro che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono con il tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni e con tutto il mondo che ho visto non sappia ancora che cos’è il mio paese?"
  

 

scarica modulo contributo alla Parrocchia da impresa

scarica modulo contributo alla Parrocchia da privato

letterina 20100704

L'affondo

 Santa Margherita di Antiochia

s.margherita

Andrea del Sarto,

Santa Margherita,

Duomo Pisa

         

Secondo una passio confusa e leggendaria, redatta in greco da Teotimo (che si dichiara testimone dei fatti), Margherita nacque nel 275 ad Antiochia di Pisidia. Figlia di un sacerdote pagano, dopo la morte della madre fu affidata ad una balia, che praticava clandestinamente il cristianesimo durante la persecuzione di Diocleziano, ed allevò la bambina nella sua religione. Quando venne ripresa in casa dal padre, dichiarò la sua fede e fu da lui cacciata: ritornò quindi dalla balia, che la adottò e le affidò la cura del suo gregge.
Mentre pascolava fu notata dal prefetto Ollario che tentò di sedurla ma lei, avendo consacrato la sua verginità a Dio, confessò la sua fede e lo respinse: umiliato, il prefetto la denunciò come cristiana. Margherita fu incarcerata e venne visitata in cella dal demonio, che le apparve sotto forma di drago e la inghiottì: ma Margherita, armata della croce, gli squarciò il ventre e uscì vittoriosa. Per questo motivo viene invocata per ottenere un parto facile. In un nuovo interrogatorio continuò a dichiararsi cristiana: si ebbe allora una scossa di terremoto, durante la quale una colomba scese dal cielo e le depositò sul capo una corona. Dopo aver resistito miracolosamente a vari tormenti, fu quindi decapitata il 20 luglio(dies natalis) del 290 all'età di quindici anni.
Nel X secolo il suo corpo fu trafugato da Agostino da Pavia che voleva portarlo nella propria città. Giunto però nell'abbazia di Montefiascone egli si ammalò e morì, lasciando la reliquia in quel luogo: sono comunque diverse le località, soprattutto italiane e francesi, che vantano il possesso delle sue reliquie.


Il culto 

Santa popolarissima nel medioevo, Giovanna d’Arco dichiarò che una delle voci celesti che udiva era proprio quella di santa Margherita (che le appariva insieme all'Arcangelo Michele e a Santa Caterina d’Alessandria).
Spesso assimilata ad altre sante (Caterina d’Alessandria, Pelagia, Reparata) è inserita tra i quattordici "santi ausiliatori" che venivano invocati nei momenti difficili.
È molto venerata (col nome di Marina) anche dalla Chiesa ortodossa, che ne celebra la memoria il 17 luglio e la invoca contro le febbri malariche. La stessa data è utilizzata nelle regioni meridionali dell'Italia, dove il culto fu probabilmente importato da monaci bizantini durante le persecuzioni iconoclaste.


Nella chiesa di Carosso si può ammirare la tela restaurata attribuita al Cesareni: Madonna in gloria con Santa Margherita e Maddalena (1731)


 

 

scarica modulo contributo alla Parrocchia da impresa

scarica modulo contributo alla Parrocchia da privato

letterina 20100627

L'affondo

 Giovanni nel deserto

"L’esperienza del deserto è stata per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto." (Edmond Jabés)


Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il deserto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia così importante.
Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita, il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio. E’ in sostanza luogo di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi?
La terra segnata da mancanza e negatività diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale. E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? Ma tra  prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creazione continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia. Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si attraversa. Quaranta anni, quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù.Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza.
E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito "disertare" ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà. Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante.

 

 

scarica modulo contributo alla Parrocchia da impresa

scarica modulo contributo alla Parrocchia da privato

letterina 20100620

L'affondo

 Il segno della croce

Ha scritto Romano Guardini: «Quando fai il segno di croce, fallo bene. Non così affrettato, rattrappito, tale che nessuno capisce cosa debba significare. No, un segno della croce giusto, cioè lento, ampio, dalla fronte al petto, da una spalla all'altra. Senti come esso ti abbraccia tutto? Raccogliti dunque bene; raccogli in questo segno tutti i pensieri e tutto l'animo tuo, mentre esso si dispiega dalla fronte al petto, da una spalla all'altra. Allora tu lo senti: ti avvolge tutto, ti consacra, ti santifica. Perché? Perché è il segno della totalità ed il segno della redenzione. Sulla croce nostro Signore ci ha redenti tutti. Mediante la croce egli santifica l'uomo nella sua totalità, fin nelle ultime fibre del suo essere. Perciò lo facciamo prima della preghiera, affinché esso ci raccolga e ci metta spiritualmente in ordine; concentri in Dio pensieri, cuore e volere; dopo la preghiera, affinché rimanga in noi quello che Dio ci ha donato. Nella tentazione, perché ci irrobustisca. Nel pericolo, perché ci protegga. Nell'atto di benedizione, perché la pienezza della vita divina penetri nell'anima e la renda feconda e consacri ogni cosa. Pensa quanto spesso fai il segno della croce, il segno più santo che ci sia! Fallo bene: lento, ampio, consapevole. Allora esso abbraccia tutto il tuo essere, corpo e anima, pensieri e volontà, senso e sentimento, agire e patire, tutto vi viene irrobustito, segnato, consacrato ».
È un segno da riscoprire. E’ il primo simbolo cristiano tracciato su di noi al momento del Battesimo quando tutto in noi cominciava. E sarà l'ultimo segno che tracceranno su di noi, quando tutto sarà finito. Siamo nati in questo segno e moriremo in questo segno. Tutti i doni più grandi della vita sono accompagnati da questo segno: il Battesimo, la Cresima, il perdono dei peccati, l'Eucaristia, il Matrimonio. A ogni incrocio importante della vita la Chiesa traccia su di noi questo segno. Il cristiano usa questo segno prima della preghiera, ma dovrebbe usarlo prima del lavoro, prima del cibo, prima del riposo e al primo risveglio del mattino.  Ma è un gesto di grande importanza, perché è il ricordo del più grande atto di amore di Dio per l'uomo: la morte di Cristo.

 

 

scarica modulo contributo alla Parrocchia da impresa

scarica modulo contributo alla Parrocchia da privato