letterina 20131116

La preghiera secondo Francesco

È come un centro, attorno al quale le parole del Papa continuano a gravitare.
Questo centro è la parola "preghiera". Ovvio, si dirà, la preghiera è fondante per un cristiano. Ma è come se in tanti invece vivessimo, quanto a questo, dentro a una nuvola di oblio. Chi è cristiano fin da bambino rischia di dimenticarsi lo stupore di un pregare che con l’abitudine si è come ingrigito. Chi è tornato indietro da altri mondi, atei, materialisti o semplicemente distratti, può non trovare affatto così semplice l’affidarsi a un invisibile Altro, in cui pure spera.
Insomma, è un bel salto, per quanti vivono nel tacito positivismo che ammette solo ciò che si può misurare, concepire di dare del "tu" all’Infinito. O, ancora, per alcuni pregare significa semplicemente domandare per sé, e quasi spiegare a Dio come deve avverare i propri personali progetti; inclinando però rapidamente verso la sfiducia e l’amarezza, se non si viene accontentati. Come ben conoscendo questa nuvola di smemoratezza e di fatica, il Papa torna sulla questione della preghiera con insistenza.
«L’evangelizzazione si fa in ginocchio», ha detto quest’estate...e ripete, Francesco, come pregare non sia questione di parole, ma un atteggiamento del cuore. Un rivolgersi a questo Tu che sfugge ai nostri sensi, con la piena certezza con cui parleremmo a un padre carnale; avendo l’audacia di fare il grande passo oltre ciò che è fisicamente percepibile, matematicamente dimostrabile, eppure da sempre "è", e ci conosce e ci aspetta. Ma anche chi ha il coraggio di un tale abbandono può, nel dolore e nella fatica quotidiana, perdersi, e arrivare a pensare che troppo intricati sono certi nodi, perché perfino Dio li possa sciogliere; e continuare quindi a pregare in una forma vuota, coltivando in sé una beneducata disperazione. «La preghiera, è aprire la porta al Signore, perché venga.» Pregare è questo: aprire le porta al Signore, perché possa fare qualcosa.
Ma se noi chiudiamo la porta, Lui non può fare nulla». Pregare, è come schiudere una porta rimasta a lungo sbarrata, premere sul battente per forzare i cardini arrugginiti e cigolanti. Lasciare entrare l’Altro nello spazio angusto, nell’aria viziata di un Io orgoglioso e barricato in sé. Semplicemente, schiudere quella porta tanto gelosamente presidiata dalla cultura della autosufficienza e dell’autodeterminazione, del nostro tempo il vero idolo. Ma, cosa accadrà una volta che con coraggio e insieme paura si osi lasciare uno spiraglio a Dio? «Succede come se Dio prendesse carne in noi».
Straordinaria eppure mite promessa: Dio prende carne in noi, in noi si fa tetto per i profughi, compagnia per i soli, speranza per i disperati. 

Marina Corradi 

 

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Vicariato: Catechisti

 

 

 

 

 

 

 

letterina 20131109

Il primo amore

Dopo aver letto il proemio dell’Apocalisse, cominciamo ad ascoltare le lettere alle sette Chiese. E partiamo con Efeso. Già nelle celebrazioni festive abbiamo l’occasione di lasciarci raggiungere dal messaggio di questo scritto che poi, in settimana,  verrà  approfondito  con  la  catechesi  nei  due  appuntamenti  del GIOVEDI’: ore 15.30 nella chiesa di Brocchione e ore 20.30 in chiesa parrocchiale. Ci guida don Maurizio Rota. Vorrei che ci sentissimo tutti coinvolti nel  cammino  di  questo  anno  pastorale,  con  un’attenzione  tutta  particolare  alla catechesi  degli  adulti.  Dare  l’esempio  significa  anche  uscire  una  sera  al  mese per conoscere e gustare la Parola, attingendo forza al...primo Amore.


Qui sotto è riportato un passaggio delle riflessioni che l’allora Cardinal Bergoglio fece proprio a partire dalle lettere dell’Apocalisse.


...Con  gli  anni,  il  carattere  delle  persone,  così  come  il vino, o migliora o s’inacidisce. Non è per caso che una persona diventa un anziano gioioso, rispettato dai figli e capace di dare consigli, un nonno che i nipotini  vanno  a  trovare  con  allegria,  per  ascoltare  storie.  Così  come  non  avviene per caso che un vecchio sia burbero, malizioso, fastidioso, scontroso o un vecchio senile, o un vecchio immaturo, e la preparazione di quello che saremo nella terza età comincia fin da subito, pregando per la nostra carità.
Nell’Apocalisse  c’è un brano che narra di quando il fervore iniziale abbandona la comunità che potrebbe esserci utile. La Chiesa di Efeso ha molti meriti: si è sempre comportata bene, ha sopportato la fatica, è stata paziente nella sofferenza, non sopporta i malvagi e ha sventato l’inganno dei falsi apostoli. Però il Signore va più a  fondo e con un rimprovero assesta un colpo unico e definitivo alla  Chiesa:  <<Ho  però  da  rimproverarti  di  avere  abbandonato  il  tuo  primo amore>> (Ap 2.4).
Cosa  significa  <<recuperare  la  carità  perduta>>?  Cosa  significa  tornare  al <<primo amore>>? Non è un po’ ingenuo? Il primo amore deve essere riconquistato, ma non a colpi di <<impeti>> eroici, come nella giovinezza, ma con l’unico colpo che fa cedere un cuore maturo.

 

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Lettera alla Chiesa di Efeso

Vicariato: Catechisti

Domenica Animazione

 

 

 

 

 

 

letterina 20131102

Nuovissimi o Novissimi?

“Nuovissimi” è un aggettivo che si usa quando un prodotto viene lanciato sul mercato e sorprendentemente costituisce una qualità dell’oggetto stesso. Come se il solo fatto di essere ultima generazione fosse già una garanzia. La novità è un valore in sé. “Novissimi” invece non è un aggettivo, ma sostantivo. E riguarda le cose ultime, cioè quelle che stanno alla fine della vita: la Morte, il Giudizio, l’Inferno e il Paradiso. Tanti anni fa, nelle nostre chiese o durante le Quarantore, magari per le missioni popolari, i predicatori dai pulpiti tuonavano: la vita veniva raccontata come un grande duello tra vizi e virtù.
Le pecore da una parte e i caproni dall’altra e la fede era sperare di trovarsi dalla parte giusta al momento giusto.  Noi proviamo a pensare e a pregare sulle cose ultime, i Novissimi, perché abbiamo urgenza di far respirare le domande, di trovare per l’oggi un senso che vada oltre la rincorsa all’ultima novità, perché se la Novità vera ci ha raggiunti ad un certo punto della nostra vita, cioè la vita nuova in Cristo, avvertiamo nel profondo del cuore e della nostra coscienza che qualcosa in noi ha sapore di eternità. E anche chi non crede o crede a fatica, sicuramente nutre la segreta speranza di ritrovare un giorno le persone che ha amato. Qualcosa dentro noi non si piega all’idea di averle perse in eterno. Tutti amiamo. Almeno una volta nella vita. Ed è l’amore in sé che ci obbliga a credere che l’amore non perde nulla di ciò che ha amato. Gesù dice che questa è la volontà del Padre suo e nostro: non perdere nessuno di coloro che Egli ama. Tutto il mistero della nostra fede ruota intorno a questa promessa che nella Pasqua e divenuta certezza. Non vuole perdere nessuno di noi, perché l’Amore accetta di perdere la vita, ma non te. La ricorrenza liturgica dei defunti, che sono i morti, va insieme a quella dei santi per ricordarci proprio questo: che la morte non cancella la memoria. Perché l’Amore non dimentica. E l’Amore, quando ricorda, fa vivere. Nella Messa questo accade. Allora sapere e credere che ci sarà il Giudizio diventa per l’oggi fonte di speranza. Perché ci sarà davvero un momento nel quale saremo definitivamente aiutati a tenere ciò che vale e a liberarci delle cose inutili. Inutile e pesante è tutto ciò che su questa terra non è toccato dall’amore e giace nelle nostre giornate o nelle nostre case, tra le nostre cose o tra i ricordi come peso morto: magari è d’oro, ma è zavorra e fonte di divisione. Questo si chiama Inferno, ovvero tutto quello che si sottrae all’amore. L’amore solamente porta in salvo. Altrimenti va perduto. Per questo la Scrittura si chiude con un libro, l’Apocalisse, che è l’ultima rivelazione: al centro della città santa, la Gerusalemme celeste, sta ritto l’Agnello che come un condottiero guida le schiere dei redenti nella terra (Ap 14). L’agnello è il Cristo che è passato per la grande tribolazione: entrato nella sua passione dal giardino del Getzemani è uscito vivo e stigmatizzato dal giardino della resurrezione...Nel libro dei redenti c’è anche il tuo nome. Un posto preparato da sempre, conquistato per sempre. E vivere con questa prospettiva ci fa respirare: abbiamo la vita eterna! 

Suor Katia Roncalli

 

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letterina 20131026

Gioventù bevuta

“Ci sono figli che danno soddisfazioni e lavorano, altri invece che si sbronzano, si drogano e sono violenti. Ci sono figli affettuosi e solari e figli che non sanno che farsene del tuo amore. L’elenco sarebbe lungo. Un figlio, tuttavia, è ciò che di più grande e importante al mondo Dio ti possa dare e qualunque cosa te lo porti via è terribile. E’ ciò che di peggio ti possa capitare nella vita. Quando a portarti via un figlio è una malattia, anche un tragico incidente sul lavoro o sulla strada, accettare la disgrazia è difficilissimo. Ma accettare che un figlio ti sia strappato da un suo coetaneo ubriaco alla guida di un’auto è insopportabile.
Perché non pensare che sballare con l’alcool o drogarsi significa mettere a rischio la propria e altrui vita? Mio figlio Stefano era un ragazzo valido, una di quelle persone che non ti dicono mai la cosa sbagliata, non perdono mai la pazienza e sono amati da tutti. Mi guardava con quegli occhi buoni, con quel fondo di malinconia, quasi fosse un presagio di ciò che gli sarebbe successo. Sapere che chi ha creato questo danno, questo strazio costante che ci accompagna e ci accompagnerà per sempre, pare non avverta nemmeno il senso di colpa di fronte a una vita spezzata, fa male e aggrava il dolore di una famiglia. Quanta indifferenza, quanto egoismo in chi ha spezzato la vita di un giovane. Nessuno vuole “la testa” di un ragazzo, anche se colpevole, ma un sincero pentimento, una richiesta di perdono sì. E la legge che cosa fa? Sì, ci dovrebbe almeno in parte tutelare, anche se nessuno ci restituirà più nostro figlio e io prometto che, proprio per lui e per la sua memoria, non lascerò nulla di intentato. Diventerà lo scopo della mia vita far conoscere i rischi di chi si mette al volante ubriaco. Stefano non c’è più e io voglio gridare il mio no all’alcool, alle droghe perché non ci siano altre vittime. Tu che vivi con queste persone che si bevono il cervello, dimmi qualcosa. Grazie.”

Ciao Alessandra

 

E’ una lettera scritta da una mamma a don Chino (che con don Mario incontrerà ancora i genitori martedì prossimo, mentre i figli ascolteranno Claudio e Cinzia e alcune testimonianze di giovani) riportata in uno dei suoi libri: Come canne al vento).

 

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letterina 20131019

Servo inutile 2

Continua la riflessione di un prete, iniziata settimana scorsa.

"Servo inutile" significa capire di essere un "guaritore ferito".
Questo è il miracolo che ogni sera, nell’esame di coscienza, lascia ogni prete a bocca aperta: lo scoprire quante cose buone Dio riesce comunque a fare, nonostante me. Questo è per il prete il sentire la vicinanza del Signore che si fa forza non solo nei tanti momenti belli, ma anche quando le lacrime dell'incomprensione bruciano gli occhi o il cuore piange perché hai inquinato attese e deluso speranze, o la solitudine ti fa guardare tutta notte al soffitto della camera, o la sofferenza e il nero degli altri che ti hanno buttato addosso ti brucia lo stomaco tra i battiti del cuore e i dibattiti della mente.
Ma una delle cose belle di essere prete, per cui dire tanti grazie, è l'avere ogni giorno una scuola per imparare l'arte di essere uomo:
l’aula è la comunità e gli insegnanti sono le persone che incontri.
Ciascuno è un tuo maestro: non importa se è adulto o piccolino, sano o ammalato, santo o peccatore, credente o ateo.
Un prete osserva e ne fa tesoro: la mamma con il suo bambino, il nonno con il suo nipotino, l’innamorato con la sua ragazza, l’ammalato con la sua croce, l'anziano con la sua preghiera, l'ateo col suo distacco, il fedele col suo impegno costante, l'arrabbiato con la sua rivendicazione, l'amico col suo esserci.
"Siamo servi inutili", così Gesù oggi ci suggerisce di ripeterci.
Ben fa eco Jean Guitton: “Il prete sta tra Dio e gli uomini, ma deve cercare di fare meno ombra possibile”. Chiedo alla luce di Dio di sciogliere le ombre che ho creato io. Pregate per me.

dgd

 

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letterina 20131012

Servo inutile 1

Un prete, partendo dal Vangelo della scorsa Domenica, così scriveva:

"Siamo servi inutili, abbiamo fatto quanto dovevamo fare".

Vorrei ribaltare la prospettiva: il prete di solito parla degli altri offrendo omelie per riflettere, per correggere, per sostenere. Oggi vorrei invece parlare dei preti.
Di me stesso e a me stesso. Se si pensa al modo più comune di parlare dei preti, per la gente il buono che fa un prete è dovuto, ma il fragile è subito additato; la disponibilità è sempre pretesa, la debolezza è detestata; se fa cose belle sono scontate, quelle sbavate sono chiacchierate.
Capita poi che un gesto generi insieme consensi e avversioni.
Ma voi credete che per un prete sia facile dare la comunione?
Quante volte sento le mie mani sporche nel porre indegnamente il pane santo del corpo di Cristo in mani che so davvero sante, oppure in mani che magari io stesso ho rifiutato o reso pugno. Qui, da parte mia, è doverosa una sincera richiesta di perdono. San Paolo dice: "Dio sceglie per sé ciò che è debole e stolto per mostrare la sua grandezza". Dio fa marketing al contrario.
In televisione grandi venditori ammaliano per prodotti scadenti. Il Signore invece si affida a rappresentanti scarsi perché è sicuro che il prodotto è letteralmente "divino". È una sfida non umana. Il prete ha fede ma ha anche dubbi, ha speranze e scoraggiamenti, ha illusioni e delusioni, ha sentimenti dolci e lacrime amare, ha benedizioni ma anche peccati, ha parole sante e idee storte. All’altare o al bar, mentre va a farsi la spesa o fa catechismo, durante una riunione o mentre confessa, il prete è un uomo. "Uomo di Dio", si dice, ma pur sempre innanzitutto un uomo. Un uomo con palpiti e sbagli, sentimenti e cadute, ideali e colpe.
Molti pretendono invece che sia “un angelo” senza incoerenze, senza sbavature, ritardi, lentezze, fatiche, difficoltà, debolezze, un angelo profumato d'incenso su una nuvoletta bianca e invece è uno che puzza di umanità con le mani infangate di fragilità. Mi consola che Gesù non è nato in profumeria, ma in una stalla e adulto non ha avuto schifo ad avere vicino traditori e prostitute (chissà cosa avranno pensato di lui, ma per lui era far rinascere).

Non ci sta tutto: continua la prossima settimana

 

 

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