letterina 20190630 - Dio a modo mio

Dio a modo mio.

Nel mondo delle religioni di tutti i tempi, l'uomo si è immaginato il divino, se lo è rappresentato con immagini, con sculture e con l'architettura.
Tra le rare eccezioni spicca la fede d'Israele: non solo non si deve fare un'immagine di Dio, ma nemmeno il suo nome è pronunciabile. Si tratta di un Dio misterioso e geloso della propria "privacy", tanto per usare un'espressione odierna? Era una strategia degli Ebrei per non farsi conoscere agli altri popoli? Eppure sappiamo che anche il popolo d'Israele aveva tentato di farsi un'immagine del suo Dio, quando dai pendenti e gioielli fusi ne era uscito un vitello, proprio come un toro che "mangia erba", così ironizza il salmo 106. In questa tentazione si nasconde l'insidia e il senso di quel divieto. Gli Israeliti si erano stancati di un Dio della Parola, di un Dio che parla al proprio cuore, alla propria coscienza, di un Dio che "cammina" e che dialoga. Gli Israeliti insomma volevano un dio alla loro portata, un "dio a modo mio".
Un dio cercato con l'intelligenza, con la filosofia, nei segni della natura e della storia appare sempre troppo lontano, un Dio invece che si rivela e si presenta può apparire troppo impegnativo: dunque più facile un "dio a modo mio". E questa insidia è ben radicata nella storia di tutti i tempi. Senza dubbio oggi sembra presentarsi con maggior evidenza, in un contesto di libertà di espressione e anche di anticonformismo. L’ insidia del "dio a modo mio" è sempre attuale ogniqualvolta non riusciamo o non vogliamo consentire a Dio che si presenti; quando ci appare troppo impegnativo, troppo sconvolgente, troppo "Dio" per essere così diverso, allora è più facile rifugiarsi in un dio a modo mio, in un dio che assecondi i miei desideri, o mi illuda di assecondarli.
Un libro, "Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia" (2015), ci presenta uno spaccato del mondo giovanile nel suo modo di intendere o di rapportarsi con Dio. Perché accade di nuovo che Dio sia cercato a proprio modo, quando Gesù Cristo stesso ci ha rivelato il volto di Dio, e lui stesso si è consegnato all'umanità nella Chiesa? Forse siamo caduti nella tentazione di farci un'immagine di Dio, non sempre abbiamo testimoniato il vero Dio, abbiamo invece "trasmesso" un dio che non era proprio il Dio di Gesù Cristo. La provocazione del "dio a modo mio" ci stimola di nuovo a non scivolare nella facile insidia di non consentire a Dio di parlarci, di rivelarsi. E’ ritornare a Gesù perché incontrare lui è già incontrare il Padre.

 

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letterina 20190623 - Bellastoria

Bellastoria.

La festa patronale ci presenta la nascita di Giovanni Battista. Ormai da diversi anni collochiamo, al termine della celebrazione serale con processione, il mandato agli animatori del Cre che inizia il giorno dopo. E di nascita, si parla nella prima settimana del mese estivo, seguendo Abramo.

Era già grande, Abramo, quando si era sentito chiamare: "Lekh, lekhà!" (Gen 12,1) aveva detto la voce; tradotto, vuol dire: "Vai, vai a te, vai verso di te, vai per te!". Come dire: "La tua è una bella storia. Cercala, trovala, mettila al mondo. Cercati, trovati, mettiti al mondo, e fai mondo!" Questo si era sentito dire Abramo, padre dell'umanità e di umanità. "Vattene dalla tua terra, dai tuoi parenti, dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò. [ ... ] Ti benedirò" (Gen 12,1-2). Cominciò con questa chiamata la storia di Abramo, qualche migliaio di anni fa.
Il nome Abramo significa 'padre dell'umanità' (Conta le stelle del cielo, se puoi. Tanti come le stelle del cielo saranno i tuoi discendenti" (Gen 15,5), si era sentito promettere) e, forse, anche padre 'di umanità' (per salvare la città degli uomini, Abramo arriverà a litigare con il Dio della sua promessa (Gen 18,23-32))
Come sta bene la storia di Abramo nella prima tappa del Cre 2019! Si nasce grazie a qualcuno che ci fa nascere, veniamo - è bello pensarlo - dal desiderio di altri che hanno pensato facessimo parte della bella storia delle loro vite. Ma nascere non si esaurisce in un tempo breve, in un giorno soltanto; la nostra data di nascita si limita a indicare quando abbiamo incominciato a essere al mondo. Ma quante nuove nascite seguiranno, quante volte la storia della vita, più o meno bella, ci chiederà, ci metterà nelle condizioni, di rinascere, di ricominciare. Quante volte, nell'intreccio della vita nostra e di quelli che abbiamo intorno e di come va il mondo; tra la vita che vorremmo e quella che possiamo. Impariamo nuovi alfabeti e rinasciamo; incontriamo volti nuovi e rinasciamo; sbagliamo e ricominciamo; cambiamo punto di vista e ricominciamo; una catastrofe, e ci scopriamo capaci di ricominciare ..."Ti benedirò", come dire "Sarò con te!": questo si era sentito promettere Abramo, padre dell'umanità e di umanità. Non sarai solo. Per andare verso di te, lascia quello che già sai e già sei; prendi le distanze da quello che conosci e ti rassicura per andare alla ricerca di quello che puoi essere e ancora non sai di poter essere. Ti benedirò, io sarò con te.
Che bella storia!

 

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letterina 20190616 - Lemen Volley: le campionesse

Lemen Volley: le campionesse.

Gli incontri del lunedì con gli adolescenti iniziano sempre con un momento di preghiera. Lo stesso, anche per le serate di formazione per gli animatori del Cre. La preghiera accompagna poi il tempo dell’estate, normalmente all’inizio e al termine delle giornate.
Certo, per un adolescente non è immediato pregare, o, comunque, andare oltre la formula imparata a memoria. Settimana scorsa ho letto loro un breve articolo che riporto di seguito, attingendo ad una esperienza concreta il bisogno di cielo.

La squadra di pallavolo femminile Lemen Volley di Bergamo si è laureata campione d’Italia Under 16 femminile per la prima volta nella sua storia, al termine di una finale ricca di emozioni contro il Volley Academy Sassuolo, giocata al PalaSojourner di Rieti. Quasi un sogno diventato realtà per le ragazze, una piccola storia da raccontare per la comunità di Vazia.
«Non sapevamo chi fossero queste alte e giovani ragazze che al mattino ci chiedevano di poter entrare nella chiesa di Santa Maria Assunta – raccontano alcune volontarie della parrocchia reatina -, e abbiamo naturalmente acconsentito».
Per la squadra, che pernottava in un hotel del quartiere, durante la durata dell’importante campionato di pallavolo, quel momento di preghiera era diventato una piccola abitudine.
«Per non disturbarle e lasciarle in silenzio durante le nostre pulizie mattutine – raccontano le signore – abbiamo chiuso le porte che davano sulla chiesa». Un piccolo orgoglio e una storia carina da raccontare anche per il parroco don Zdenek, felice che la sua parrocchia sia stata visitata dalla squadra vincitrice.
«Siamo felici della vittoria di quelle belle ragazze, educate e gentili, ed evidentemente anche talentuose a livello sportivo».

 

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letterina 20190609 - Tre navi, due morali

Tre navi, due morali.

Ogni tanto in Parrocchia arriva “Avvenire”. Martedì è stato uno di questi giorni e mi ha incuriosito il titolo dell’editoriale che poi ho letto interamente, trovando un’occasione per riflettere. Ne stralcio alcuni passaggi anche per voi.

In Italia ci sono "porti chiusi" che ogni tanto si aprono; "porti aperti" di nascosto che andrebbero sorvegliati, "porti canali" che sarebbero da spostare. E nell’approdo in queste banchine di tre navi – ognuna con carichi diversi: l’uno di vita, l’altro di morte, il terzo soprattutto di denaro – stanno racchiuse molte delle contraddizioni del nostro Paese.
Il primo porto è Genova, dove ha attraccato la nave della Marina Militare "Cigala Fulgosi" alla fine di due giorni di navigazione dal mare di fronte alla Libia, dalle cui acque aveva tratto in salvo cento persone. Tra loro 17 donne, 6 incinte, 23 minori, alcuni di qualche anno appena e 11 rimasti soli, non accompagnati. Naufraghi dell’esistenza prima ancora che del Mediterraneo: ragazzi e adulti che hanno attraversato deserti di sabbia, si sono persi nei gironi infernali dei trafficanti in Libia, sono stati fatti partire su un gommone lasciato poi, mezzo sgonfio, alla deriva.
Il secondo porto è invece quello di Cagliari, dove giovedì scorso si è infilata di sera, senza preavviso, la "Bahri Tabuk". Una nave saudita, giunta da Marsiglia per caricare anonimi container che in realtà celano bombe in grado di radere al suolo intere città. Sono gli ordigni fabbricati in Sardegna dalla Rwm che riesce a "oltrepassare" la legge che vieta al nostro Paese di commerciare armi con Paesi coinvolti in conflitti bellici, come in questo caso l’Arabia Saudita impegnata nella guerra in Yemen che sta mietendo decine e decine di migliaia di morti e ha provocato una terribile carestia con migliaia di bambini vittime di denutrizione. Per questo carico di morte e distruzione non ci sono stati né problemi né intoppi né proclami politici..
Il terzo approdo, infine, è quello piuttosto disastroso della nave da crociera 'Msc Opera' domenica a Venezia, con lo speronamento di un vaporetto e il ferimento di quattro persone. È stato sollevato da anni il problema di queste enormi città-galleggianti che si infilano nel delicato tessuto dei canali di quella città scrigno, e altrettanto galleggiante, che è Venezia. La politica, però, a tutti i livelli e in maniera trasversale, non sembra volersi assumere l’onere di un progetto alternativo e soprattutto la responsabilità di una decisione. Evidentemente troppo grandi sono gli interessi economici legati al turismo da crociera, da sconsigliare persino l’adozione del principio di precauzione, che avrebbe fatto dirottare le grandi navi da crociera quanto meno in banchine meno centrali. Un porto, che non è un porto ma un canale come quello della Giudecca, per puro interesse economico viene lasciato navigabile anche da giganti in grado di distruggere un’intera piazza senza che si alzi uno dei tanti ministri per stabilire con una semplice ordinanza che 'no, da lì a Venezia non si passa più per motivi di sicurezza, punto'.
Sbarcano direttamente in centro città o salpano carichi di armi gli stranieri nei porti del nostro Paese. Purché, però, siano turisti abbienti o sceicchi con grandi eserciti. Gli altri sono irregolari.

A me ha fatto pensare. Magari è una possibilità anche per altri...

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letterina 20190602

Lo conosciamo.

Martedì ho partecipato a Gorlago ai funerali di Mons. Giuseppe Cesani, mio primo parroco da prete novello a Leffe. Il ricordo, al termine della celebrazione, è stato fatto dal Vescovo bergamasco Mons.Bruno Foresti, ai tempi rettore del Seminario di Clusone, dove don Giuseppe era vicerettore. Un ricordo semplice e commovente allo stesso tempo, pronunciato con una voce sommessa sicuramente per l’età del presule -96 anni - ma, anche, per la commozione.
Ripercorrendo alcuni tratti del defunto, il Vescovo Bruno è esplicitamente passato dal “Monsignore” al “don” per giungere semplicemente a “Giuseppe”, in virtù del legame che li univa nell’amicizia sacerdotale. E mentre seguivo questi passaggi mi sovveniva una pagina di Jean Guitton ne “Il mio testamento filosofico”.
Coincidenze: sul sito santalessandro.org trovo in questa settimana lo stesso riferimento. Nel testo, quasi una pièce teatrale divisa in tre parti, l'autore si confida al suo pubblico con il cuore in mano. Tre sono gli atti: la sua morte (ambientata all'interno della sua camera), i suoi funerali (a Les Invalides di Parigi), il suo Giudizio (in cielo, di fronte al Tribunale di Cristo). Guitton si trova a tu per tu con vari personaggi (dal Diavolo all'Angelo custode, da Pascal a Bergson, da de Gaulle a Mittérrand) venuti a tentarlo e a porgli domande sulla sua esistenza e sulla sua fede. In tal modo l'autore si troverà a disquisire dei perché della fede, del legame tra fede e ragione, del senso del male, dell'amore e della vita, rivivendo in una sola notte tutta la sua esperienza, dai suoi maestri, ai suoi peccati, ai suoi amori.

Nella sezione riguardante il suo giudizio, immagina di trovarsi presso il tribunale celeste. Entra la corte. In cattedra il Signore Gesù Cristo. Sotto di lui San Pietro con le chiavi del regno dei cieli.
Si aprono i battenti della grande porta sul fondo. “Il Maestro Jean Guitton, Grande Maestro...”.
“Non lo conosciamo”
Entra un usciere, si alza un assessore: il secondo fa le domande, il primo risponde. “Chi chiede di comparire oggi davanti a questa augusta corte?” “Il Maestro Jean Guitton, Illustre Filosofo, Membro eminente e decano, a causa dell’età, dell’Accademia francese, Professore onorario alla Sorbona, Autore di cinquantaquattro opere e di trecento opuscoli, Uditore laico al Concilio Ecumenico Vaticano II, Amico di numerosi Sovrani Pontefici, Consigliere dei Presidenti della Repubblica, Uomo universale, onore della lingua e del pensiero francese.”
“Non lo conosciamo.
Chi chiede di comparire oggi davanti a questa corte del Cielo?”. “Il Signor Jean Guitton, Filosofo, Professore onorario alla Sorbona, membro dell’Accademia Francese.”
“Non lo conosciamo.
Chi chiede oggi di essere giudicato da Cristo Signore?”. “Jean Guitton, filosofo, peccatore.”
“Jean Guitton, peccatore”. “Lo conosciamo”

Questa volta, giunge questa risposta: “Lo conosciamo. Entri, lui che è uscito dal tempo, e sia introdotto nell’eternità perché si compia in lui l’opera della giustizia e della misericordia divina”.
Non conteranno titoli, meriti, onorificenze, cariche avute, carriere.. nulla! Conterà la consapevolezza di essere peccatori, bisognosi di stare per sempre insieme a Colui che è Amore che perdona. 

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letterina 20190526

Ti passerà la rabbia e sentirai l’amore.

Leggendo un libro, “Le paure che ci abitano”, ho trovato, tra le altre, una paginetta nella quale ne viene citata un’altra, con le parole rivolte da Tiziano Terzani a Oriana Fallaci, in “Lettere contro la guerra”. La affido anche a voi, con l’interrogativo che essa ci pone: onorare l'intelligenza, (cioè imparare a pensare, oltre le paure e la rabbia), stare in faccia alle montagne o chiuderci nella scatola di un appartamento?

«Mi piace essere in un corpo che ormai invecchia. Posso guardare le montagne senza il desiderio di scalarle. Quand'ero giovane le avrei volute conquistare. Ora posso lasciarmi conquistare da loro. Le montagne, come il mare, ricordano una misura di grandezza dalla quale l'uomo si sente ispirato, sollevato. Quella stessa grandezza è anche in ognuno di noi, ma lì è difficile riconoscerla. Per questo siamo attratti dalle montagne . Per questo, attraverso i secoli, tantissimi uomini e donne sono venuti quassù nell'Himalaya, sperando di trovare in queste altezze le risposte che sfuggivano loro restando nelle pianure. E continuano a venire.
L'inverno scorso davanti al mio rifugio passò un vecchio Sanyasin vestito d'arancione. Era accompagnato da un discepolo, anche lui rinunciatario. "Dove andate, Maharaj?" gli chiesi. "A cercare Dio", rispose, come fosse stata la cosa più ovvia del mondo. [ ... ]
Per questo sto anch'io ritirato in questa sorta di baita nell'Himalaya indiana, dinanzi alle montagne più divine del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì, maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti, come tutto nell'universo. La natura è una grande maestra, Oriana, ed ogni tanto bisogna tornare a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d'erba al vento, e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia e sentirai l'amore».

 

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