letterina 20091226

L'affondo

Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato

1. In occasione dell’inizio del Nuovo Anno, desidero rivolgere i più fervidi auguri di pace a tutte le comunità cristiane, ai responsabili delle Nazioni, agli uomini e alle donne di buona volontà del mondo intero. Per questa XLIII Giornata Mondiale della Pace ho scelto il tema: Se  vuoi coltivare la pace, custodisci il creato. Il rispetto del creato riveste grande rilevanza, anche perché «la creazione è l’inizio e il fondamento di tutte le opere di Dio» [1] e la sua salvaguardia diventa oggi essenziale per la pacifica convivenza dell’umanità. Se, infatti, a causa della crudeltà dell’uomo sull’uomo, numerose sono le minacce che incombono sulla pace e sull’autentico sviluppo umano integrale - guerre, conflitti internazionali e regionali, atti terroristici e violazioni dei diritti umani -, non meno preoccupanti sono le minacce originate dalla noncuranza - se non addirittura dall’abuso - nei confronti della terra e dei beni naturali che Dio ha elargito. Per tale motivo è indispensabile che l’umanità rinnovi e rafforzi «quell’alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino»

2. Nell’Enciclica Caritas in veritate ho posto in evidenza che lo sviluppo umano integrale è strettamente collegato ai doveri derivanti dal  rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale, considerato come un dono di Dio a tutti, il cui uso comporta una comune responsabilità verso l’umanità intera, in special modo verso i poveri e le generazioni future. Ho notato, inoltre, che quando la natura e, in primo luogo, l’essere umano vengono considerati semplicemente frutto del caso o del determinismo evolutivo, rischia di attenuarsi nelle coscienze la consapevolezza della responsabilità [3]. Ritenere, invece, il creato come dono di Dio all’umanità ci aiuta a comprendere la vocazione e il valore dell’uomo. Con il Salmista, pieni di stupore, possiamo infatti proclamare: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il
figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (Sal  8,4-5). Contemplare la bellezza del creato è stimolo a riconoscere l’amore del Creatore, quell’Amore che «move il sole e l’altre stelle» [4].


Dal Messaggio di Benedetto XVI per la XLIII Giornata mondiale della pace


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letterina 20091219

L'affondo

Ero Cras

"Ero cras", "Ci sarò domani":è una promessa molto antica, risalente ai tempi di Gregorio Magno, e nascosta tra le righe di sette antifone che tradizionalmente accompagnano l’ultima settimana di Avvento. "O Sapientia", comincia la prima, e le successive: "O Adonai, O Radix, O Clavis, O Oriens, O Rex, O Emmanuel". Germoglio, Chiave, Re, Emmanuele: tutte le antifone iniziano con un’invocazione a Cristo. Ma capovolgendo l’ordine delle parole e prendendo di ciascuna la lettera iniziale, emerge l’acronimo "Ero cras", "Ci sarò domani". Non è enigmistica. Ogni antifona è una sintesi di passi dell’Antico e Nuovo Testamento, un concentrato di fede cristiana che gli antichi fedeli ripetevano nella penombra dei vespri dell’Avvento, quando la notte calata sulle brevi giornate d’inverno, rischiarato solo da candele, evocava un’altra ombra, che incuteva timore. Dalle buie sere che precedono il solstizio, dal colmo dell’oscurità, nelle chiese si invocava: Germoglio, Sapienza, Re, vieni a liberarci dalla tenebre. E nella quinta antifona, quella del 21 dicembre - giorno esatto del solstizio, in cui, toccato il vertice del buio, il sole comincia a risalire in cielo - si cantava: "O Oriens, splendor lucis aeternae et Sol Iustitiae: veni et illumina sedentem in tenebris et umbra mortis"; "O astro che sorgi, splendore di luce eterna e sole di giustizia: vieni, illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra della morte". E infine, nascosta nelle iniziali delle prime parole delle antifone: "Ero cras". Ci sarò domani, ci sarò sempre: nel fondo del buio, di generazione in generazione, il ripetersi di una promessa di luce.   E noi? ti viene da domandarti. L’attesa che colma questi antichi canti d’Avvento, ci appartiene ancora? O, sfumata la memoria di un male originario che ci opprime, non percepiamo più davvero il buio che nelle antifone del tempo di Gregorio Magno pare così incombente, tanto che è evidente come quei versi anelano la luce? Non più pienamente coscienti del buio, sappiamo ancora desiderare la luce? La nascita di Cristo, nel colmo dell’inverno, è il venire al mondo di colui che vince la morte. Ce ne ricordiamo pienamente, noi credenti del 2009 (ndr), pressati negli ipermercati in cui infuria "Jingle bells", o angosciati dalla crisi e dal vacillare del nostro benessere? Che la promessa antica e segreta delle "antifone O", l’augurio, ci accompagni nel nostro affannarci della vigilia del Natale. "Ero cras", ci sarò domani e sempre. E grazie al dotto studioso che ha ricordato a noi credenti analfabeti un segreto tesoro, a illuminare questi giorni di buio.   

di Marina Corradi

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letterina 20091212

L'affondo

Di inizio in inizio

Pensavamo che il Vangelo avrebbe cambiato il mondo, che l’avrebbe capovolto, e invece siamo qui con guerre dimenticate, con odio esibito, con Abele sempre ucciso, e la bambina speranza è ancora vestita di stracci. Eppure non ci arrendiamo. Il Vangelo non ha ancora trasfigurato la storia, eppure riprendiamo testardi a tessere un filo di luce, un filo da aggiungere alla trama così breve e così fragile dei giorni dell’uomo.
Ho ricevuto un messaggio d’auguri da un amico:" Passare splendendo per un istante anche se nessuno guarda il tuo lucente sguardo".
Una madre ha atteso tutta la notte e il figlio non è guarito; una sposa ha pianto per giorni e giorni e il marito non è tornato. La ninfea è fiorita nello stagno e nessuno l’ha vista; un fiore è sbocciato nel bosco e nessuno ne ha gustato il profumo; un usignolo ha cantato nel buio incurante se qualcuno lo ascoltava; un monaco ha pregato lungo la notte anche se nessuno lo saprà mai. Essi stanno confezionando l’abito da sposa della nostra terra. Il loro lavoro non è arrivare o raccogliere, ma partire ogni giorno, seminare a ogni stagione. Mi dà forza questo scialo di bellezza e di speranza, e la sommessa bontà delle cose. Io credo alla primavera dei cuori, l’unica che non è questione di clima o di stagioni. La primavera dei cuori è un’operazione ardita.
Ogni pratolina, ogni margherita per sorridere lì in mezzo al prato, contenta dei suoi colori, ha dovuto attraversare notti e deserti, ha dovuto ingaggiare battaglie senza pietà. La primavera dei cuori libera le possibilità. Per guarire non c’è niente come perdere la propria vita di sempre, quella con lo stesso volto di sempre, scommettendo sulla novità che ci abita, sulla virtù degli inizi.
Fiorire, dunque. Fiorire è profonda responsabilità.

"Fiorire è il fine... Colmare il bocciolo, combattere il verme, ottenere quanta rugiada gli spetta, regolare il calore, eludere il vento, sfuggire all’ape ladruncola, non deludere la natura grande che l’attende proprio quel giorno.
Essere un fiore è profonda responsabilità." (E. Dickinson)

Ermes Ronchi

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letterina 20091205

L'affondo

Maria porta della speranza

La delicatissima antifona che si canta ai vespri nella memoria dei Santi Gioacchino ed Anna, così parla di Maria:" Dalla nobile stirpe di Jesse è spuntato un grazioso virgulto, sul quale è sbocciato un fiore stupendamente profumato".
Nacque, infatti con Maria, la pianticella della speranza che avrebbe finalmente dato il fiore della promessa, quella seminata nel cuore di Abramo e di tutta la sua discendenza.
E poiché la speranza era la piccola sorella della fede che guardava con occhi ridenti il futuro, Maria venne nel mondo come una splendida aurora che annuncia il giorno della Salvezza.
Anche se il mondo allora non se ne accorse e ancora oggi, in molti luoghi, sembra ignorarlo, quella nascita a Nazaret di Galilea cambiò l’aspetto dell’universo: gli recò una luce nuova, un’immacolata trasparenza che rendeva più dolce a Dio il discendere sul pianeta terra per stabilirvi la sua dimora.
Sulla speranza si è facilmente tentati di fare poesia, ma in realtà questa virtù teologale è caratteristica dei forti, di coloro che attraversano i flutti tempestosi della storia e dell’umana esistenza stando "disperatamenta" al timone della navicella e puntando lo sguardo nella notte fonda, finchè appaia una piccola luce, anche una sola fra cumuli di nubi persistenti.
Proprio con l’immagine della "stella mattutina", la Chiesa saluta la santa Vergine volgendo a lei lo sguardo, poiché "la Madre di Gesù, come in cielo, glorificata ormai nel corpo e nell’anima, è immagine e inizio della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra brilla ora innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore" (Lumen gentium 68).
Colei che è già nella gloria del cielo e che noi contempliamo come fulgido segno di speranza, è stata come noi pellegrina sulla terra e ha consumato i suoi piedi camminando su aspri sentieri, ha consumato il suo cuore in giorni e notti pieni di umani struggimenti e di angosce. Ma non poteva fare a meno, nella sua normale esistenza quotidiana, di vedere il senso della propria vita in relazione alla persona del figlio; cresceva nella speranza vivendo da vera povera, che poteva contare soltanto su Dio, sull’Onnipotente che le aveva dato quell’unico Figlio di grazia.

Anna Maria Canopi

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letterina 20091122

L'affondo

Una presenza irriducibile

La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo contro i crocefissi nelle aule scolastiche ha suscitato una vasta eco di proteste: l’84 % degli italiani, secondo un sondaggio del Corriere della sera, si è scandalizzato della decisione.
"E voi chi dite che io sia?".
Questa domanda di Gesù ai discepoli ci raggiunge dal passato e ci sfida ora.
Quel Cristo sul crocefisso non è un cimelio della pietà popolare per il quale si può nutrire, al massimo, un devoto ricordo. Non è neppure un generico simbolo della nostra tradizione sociale e culturale. Cristo è un uomo vivo, che ha portato nel mondo un giudizio, una esperienza nuova, che c’entra con tutto: con lo studio e il lavoro, con gli affetti e i desideri, con la vita e la morte. Un’esperienza di umanità compiuta.
I crocefissi si possono togliere, ma non si può togliere dalla realtà un uomo vivo.
Tranne che lo ammazzino, come è accaduto: ma allora è più vivo di prima!
Si illudono coloro che vogliono togliere i crocefissi, se pensano di contribuire così a cancellare dallo "spazio pubblico" il cristianesimo come esperienza e giudizio: se è in loro potere - ma è ancora tutto da verificare - abolire i crocefissi, non è nelle loro mani togliere dei cristiani vivi dal reale. Ma c’è un inconveniente: che noi cristiani possiamo non essere noi stessi, dimenticando che cos’è il cristianesimo; allora difendere il crocefisso sarebbe una battaglia persa, perché non direbbe più nulla alla nostra vita.
La sentenza europea è una sfida alla nostra fede.
Per questo non possiamo tornare con tranquillità alle cose solite, dopo aver protestato scandalizzati, evitando la questione fondamentale: crocifisso sì, crocifisso no, dov’è l’avvenimento di Cristo oggi? O, detto con le parole di Dostoevskij:"Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?"

 


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