letterina 20090823

L'affondo

 

Lettera ai cercatori di Dio


Iniziamo a leggere alcuni passaggi della lettera inviata dai Vescovi Italiani

I LE DOMANDE CHE CI UNISCONO

3. LAVORO E FESTA


Il lavoro è un diritto e una responsabilità. Nel lavoro entrano in gioco la nostra dignità di persone, il senso e la qualità della nostra vita, l’esercizio quotidiano della nostra relazione con gli altri. Ne siamo convinti e non abbiamo bisogno che qualcuno ce lo ricordi. Guardiamo con senso di preoccupazione e di rimprovero le persone che hanno poca voglia di lavorare.
Percepiamo la difficoltà e perfino il dramma di chi non riesce a trovare lavoro. La negazione del diritto al lavoro, di cui soffrono ancora tante donne e uomini di questo tempo, specialmente fra i giovani, non può lasciarci indifferenti.
Come discepoli di Gesù, il Figlio di Dio che "ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo" (Concilio Vaticano II, Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22), riconosciamo al lavoro una grande dignità, un significato profondo. Vogliamo perciò interrogarci insieme sul suo significato, per comprendere meglio questa dimensione importante della nostra esistenza e le attese che essa porta con sé.

Perché il lavoro?

Per il lavoro impegniamo la maggior parte della nostra esistenza. Se perdiamo il senso del lavoro, perdiamo il senso stesso della nostra vita. Veniamo da esperienze e da modelli di tessuto sociale in cui il lavoro era gravato da condizioni disumane: dannoso alla salute, carico di pericoli, segnato da orari insopportabili, pagato in nero. Oggi, certamente, molte cose sono cambiate, anche se non sempre e non per tutti.
Affiorano però problemi nuovi, connessi alla globalizzazione, alla delocalizzazione, alla concorrenza, alle difficoltà delle imprese, alle ricorrenti crisi economiche. È cresciuto il livello medio della ricchezza, ma nel contempo si sono allargate le aree della povertà e dell’emarginazione. La forte innovazione tecnologica ha spesso determinato nel lavoratore insicurezza sul suo posto di lavoro e incertezza sul destino della sua professionalità. Ne deriva una sete di giustizia e di dignità, sempre più diffusa ed esigente. In quali condizioni lavorare, per non diventare schiavi del lavoro e perché in esso si esprima la nostra dignità di persone? Ce lo chiediamo con l’ansia di chi non si accontenta di parole e riconosce di affrontare questioni vitali, personali e sociali. Non viviamo per lavorare, ma lavoriamo per vivere. Non lavoriamo per fare soldi - o almeno non dovremmo farlo solo per questo -, lavoriamo per vivere dignitosamente. Non lavoriamo solo per noi, ma per far vivere coloro che non sono ancora in grado di lavorare, i bambini, e coloro che non possono più lavorare, gli anziani. Il lavoro deve servire a realizzare la nostra dignità di persone. Non è una merce che si compra e si vende, ma un’attività umana libera e responsabile.
La crescita in consapevolezza e in responsabilità ci ha aiutato a scoprire un’altra ragione del nostro lavoro:
lavoriamo per il benessere della collettività e dell’umanità in generale. In tal senso, il lavoro è un obbligo morale verso il prossimo: in primo luogo verso la famiglia, poi verso la società a cui si appartiene, la nazione di cui si è cittadini, l’intera famiglia umana. Noi siamo eredi del lavoro delle generazioni che ci hanno preceduto e insieme costruttori del futuro di coloro che vivranno dopo di noi.

 

 

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letterina 20090816

L'affondo

 

Lettera ai cercatori di Dio


Iniziamo a leggere alcuni passaggi della lettera inviata dai Vescovi Italiani

I LE DOMANDE CHE CI UNISCONO

2. b Rinascere sempre di nuovo nell’amore


Abbiamo cercato parole per dire il nostro amore, quello che ci fa nascere, vivere e  sperare. Abbiamo dovuto usare parole amare, come delusione, fallimento, tradimento, incertezza, chiusura, egoismo. Non tutto è così, per fortuna.
La nostra esperienza di amore sa rinascere. Parliamo di fallimento proprio perché sogniamo esperienze diverse. Sogniamo esperienze nuove perché altri, amici vicini o sconosciuti, ci restituiscono fiducia nell’amore e sicurezza nella sua vittoria, nonostante tutto.
Davvero lo scontro tra amore e tradimento mette la nostra esistenza in una condizione di inquietudine, che scopriamo sempre presente e nuova, anche quando ci sembra d’averla superata e risolta. Nel silenzio del nostro cuore inquieto troviamo una domanda che avvolge tutto il mistero del nostro esistere e che si proietta in avanti, anche quando sperimentiamo risposte che sembrano soddisfacenti.
Soprattutto deve diventare veramente nostra la risposta che ognuno di noi darà a questa domanda.
Ciascuno è chiamato a esprimerla nella sua storia personale e a dire a se stesso le sue buone ragioni per amare e superare le resistenze ad amare a partire dal proprio vissuto. La solidarietà che ci lega ci spinge però a rompere il silenzio per farci ciascuno proposta agli altri.
Sì: c’è in noi un immenso bisogno di amare e di essere amati. Davvero, "è l’amore che fa esistere" (Maurice Blondel). È l’amore che vince la morte: "Amare qualcuno significa dirgli: tu non morirai!" (Gabriel Marcel). Eugenio Montale esprime intensamente questo bisogno, che è insieme nostalgia, desiderio e attesa, nei versi scritti dopo la morte della moglie, dove è proprio l’assenza della persona amata a far percepire l’importanza dell’amore, che vive al di là di ogni fragilità e interruzione:
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.

In questo bisogno di rinascere sempre di nuovo nell’amore ci sembra riconoscibile una nostalgia: quella di un amore infinito...

 

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letterina 20090809

L'affondo

 

Lettera ai cercatori di Dio


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I LE DOMANDE CHE CI UNISCONO

2a.  Amore e Fallimenti

Siamo fatti per amare. L’amore dà la vita e vince la morte: "Se c’è in me una certezza incrollabile, essa è quella che un mondo che viene abbandonato dall’amore deve sprofondare nella morte, ma che là dove l’amore perdura, dove trionfa su tutto ciò che vorrebbe avvilire, la morte è definitivamente vinta" (Gabriel Marcel). Ne siamo consapevoli, anche quando le parole che pronunciamo e i fatti di cui è intessuta la nostra esistenza non sono in grado di esprimere quello che abbiamo  intuito e che desideriamo. Ci  fanno paura le persone aride, spente nella voglia di amare e di essere amate. L’amore è  irradiante, contagioso, origine prima e  sempre nuova della vita. Per amore siamo nati. Per amore viviamo. Essere amati è gioia. Senza amore la vita resta triste e vuota. L’amore  è  uscita  coraggiosa  da  sé, per andare  verso  gli  altri  e accogliere  il  dono  della  loro diversità  dal nostro  io,  superando nell’incontro  l’incertezza  della nostra  identità  e  la  solitudine delle nostre sicurezze.


Imparare ad amare


Quella dell’amore è la storia più personale della nostra esistenza. Riconosciamo i percorsi e proclamiamo  gli  eventi  che  la  punteggiano. Ma  ci  troviamo  spesso  affaticati,  stanchi,  sollecitati a fermarci al bordo della strada a causa di delusioni e incertezze. Riconosciamo che nella via dell’amore c’è sempre una provenienza, un’accoglienza e un avvenire. La provenienza è l’uscire da sé nella generosità del dono, per la sola gioia di amare: l’amore nasce dalla gratuità o non è. L’accoglienza è il riconoscimento grato dell’altro, la gioia e l’umiltà del lasciarsi amare. L’avvenire è il dono che si fa accoglienza e l’accoglienza che si fa dono, l’essere liberi da sé per essere uno con l’altro  e nell’altro,  in  una  comunione  reciproca  e aperta agli  altri,  che  è  libertà. Tutto  questo  è difficile. Mille ostacoli attraversano il cammino e spesso lo bloccano. Basta uno sguardo al mondo dei  rapporti umani, per constatare  l’evidenza di  tanti  fallimenti dell’amore, un’evidenza che appare perfino chiassosa e  inquietante. Siamo  fatti per amare e  scopriamo quasi di non esserne capaci. Originati dall’amore, ci sembra tanto spesso di non saper suscitare amore. Perché? Ce lo chiediamo quando  la nostalgia di esperienze di amore  intense e  limpide attraversa la nostra esistenza e colora  i nostri sogni. Qualcuno, raccogliendo  le parole dalla sua esperienza, suggerisce ragioni e prospettive di questa  fatica di amare,  tutte, comunque, da verificare  in prima persona.
Sono la possessività, l’ingratitudine e la tentazione di catturare l’altro le forme che più comunemente paralizzano il cammino dell’amore. La possessività paralizza l’amore perché impedisce il dono, bloccando  il cuore  in un avido e  illusorio accumulo di ricchezza per sé. L’ingratitudine è l’opposto  della  riconoscenza gioiosa.  Impedisce  l’accoglienza  dell’altro  e  impoverisce  l’anima, perché dove non c’è gratitudine, il dono stesso è perduto. La cattura è frutto della gelosia, e insieme  della  paura  di  perdere  l’istante  posseduto:  in  una  sorta  di  sazietà  illusoria  essa  chiude  lo sguardo verso gli altri e verso l’avvenire. Come superare queste resistenze? Come divenire capaci di amare oltre ogni possessività, ingratitudine e prigione del cuore? Chi ci renderà capaci di amare?


 

 

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letterina 20090802

L'affondo

 

Lettera ai cercatori di Dio


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I LE DOMANDE CHE CI UNISCONO

1d.  Che cosa possiamo sperare?

Le domande si moltiplicano. Ciascuno ha le proprie. A pensarci bene, cambiano le parole, ma il grido resta, comune e condiviso da tutti: abbiamo una gran voglia di vita, di felicità, di sicurezza e di tranquillità, e il dolore, la fragilità e la morte sembrano fatti apposta per distruggere tutto questo. Dobbiamo rassegnarci? Spegnere la voglia di vita, raffreddando i nostri slanci? Dobbiamo riconoscere che questa non è la nostra casa e rimandare tutto a un dopo, a quando saremo finalmente a casa?
Ma questa casa, lontana e non sperimentabile, c’è davvero o resta un’illusione, più o meno com’è per tanti tentativi che costruiamo con le nostre pretese e che ci lasciano l’amaro in bocca? Qualcuno va oltre, pensando: smettiamola di sognare e accontentiamoci di quello che possiamo avere tra le mani. Pazienza, poi, se dobbiamo sottrarlo, violentemente o astutamente, ad altri. Questa è la vita. Non è più saggio rassegnarsi?
La nostra esperienza quotidiana è spesso tentata di cadere nella rassegnazione e nel cinismo, eppure si spalanca continuamente verso una forte necessità di speranza. Ma che cosa significa sperare?
La speranza ha a che fare con la gioia di vivere. Suppone un futuro da attendere, da preparare, da desiderare. Sentiamo che la speranza richiede e suscita unità nel cuore: dà senso e motiva ogni nostro sentimento, ogni nostra aspirazione, ogni nostro progetto. Promuove anche unità nella storia: nelle tante cose che pensiamo e che facciamo ogni giorno ci può essere un filo conduttore che collega e illumina tutto quanto. Se c’è speranza, c’è pazienza e c’è la vigilanza che sa vagliare e spinge all’impegno in ogni cosa.
Non si può vivere senza speranza: sarebbe come vivere senza riuscire a dare una prima iniziale risposta all’interrogativo "perché sono al mondo"? Tutti abbiamo bisogno di un orizzonte di senso, per dire qualcosa di vero sul nostro futuro. Ha senso sperare che ciò che desideriamo si attui; così pure ha senso sperare di avere successo nei singoli aspetti su cui puntiamo. C’è una speranza a livello personale e c’è una speranza a livello storico-cosmico. Il tempo e le circostanze sono importanti per dare un contesto e un contenuto alle nostre speranze.
C’è una speranza che nasce e cresce grazie ai rapporti con le persone; anzi certi rapporti, aperti al dialogo e alla collaborazione, generano speranza, perché ci fanno sentire accolti e cercati e ci stimolano all’azione. Ma è possibile pensare e desiderare la speranza come dono che viene a noi in modo imprevedibile, come intervento non soltanto umano? Un dono che trascende le nostre possibilità, la nostra progettualità, i nostri orizzonti?
Nei momenti più felici, come in quelli più profondi, anche quando sono sofferti, sogniamo una speranza che crede e che ama: la speranza di chi si sente amato, cercato, sostenuto nel quotidiano, in un crescendo di senso, di gioia, di operosità costruttiva, che va oltre la fine di tutto. È questa la speranza che viene da Dio?


 

 

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letterina 20090726

L'affondo

 

Lettera ai cercatori di Dio


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I LE DOMANDE CHE CI UNISCONO

1c.  Quale felicità?


Facciamo fatica ad accettare la scuola della sofferenza per scoprire che cosa sia la vita e la felicità. Nonostante tutte le nostre riflessioni e le nostre proteste, infatti, la debolezza, il dolore, la morte rimangono un mistero. La cultura moderna, non sapendo dare una risposta a queste sfide, cerca di nasconderle con l’ebbrezza del consumismo, del piacere, del divertimento, del non pensarci. In tal modo, però, si nega il significato profondo della debolezza e della vulnerabilità umane e se ne ignora sia il peso di sofferenza, sia il valore e la dignità: e questo rende interiormente aridi e induce a vivere in modo superficiale.  
L’esperienza della fragilità, del limite, della malattia e della morte può insegnarci alcune cose fondamentali. La prima è che non siamo eterni: non siamo in questo mondo per rimanerci per sempre; siamo pellegrini, di passaggio. La seconda è che non siamo onnipotenti: nonostante i progressi della scienza e della tecnica, la nostra vita non dipende solo da noi, la nostra fragilità è segno evidente del limite umano. Infine, l’esperienza della fragilità ci insegna che i beni più importanti sono la vita e l’amore: la malattia, ad esempio, ci costringe a mettere nel giusto ordine le cose che contano davvero.  

La fragilità è una grande sfida anche per la fede nel Dio di Gesù Cristo.  
Il Signore ci ha creati per la vita, per la felicità. Perché, allora, permette il dolore, l’invecchiamento, la morte? Quante domande di fronte a un dolore o a un lutto che fa sanguinare il cuore! Si può perfino dire che la sofferenza e la morte sono la più grossa sfida contro Dio. C’è chi si è dichiarato “ateo” per amore di Dio, per giustificare la sua assenza e il suo silenzio davanti al dolore innocente.


 

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letterina 20090719

L'affondo

 

Lettera ai cercatori di Dio

 
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I LE DOMANDE CHE CI UNISCONO

1b.  L’esperienza della fragilità


Come credenti, abbiamo una convinzione irrinunciabile, che ci viene dalla nostra esperienza cristiana. Su di essa cerchiamo il confronto con tutti coloro che preferiscono la vita alla morte e cercano la felicità come la qualità profonda di questa stessa vita. La vita è bella nonostante tutte le prove e le disavventure, perché esistiamo e sperimentiamo l’amore. Non per tutti, certo, è così. La vita è segnata in tutte le sue fasi e le sue forme dalla fragilità: la fragilità del nascituro, del bambino, dell’anziano, del malato, del povero, dell’abbandonato, dell’emarginato, dell’immigrato, del carcerato. In tutte le età ci sono sofferenze fisiche, psichiche, sociali. Come avviene per la felicità, anche l’esperienza del dolore ci accomuna tutti. Come in ogni situazione umana si sperimenta la fragilità, così ogni ambiente vitale è frutto di un fragile equilibrio. Nei volti delle famiglie ci sono spesso più lacrime da asciugare che sorrisi da raccogliere. Nella vita ci sono sofferenze che arrivano contro ogni nostra aspettativa e ci sono anche sofferenze che nascono dai nostri errori e dalle nostre colpe, quelle che costruiamo con le nostre mani: quando, ad esempio, diamo la prevalenza all’avere sull’essere; quando ci carichiamo di cose inutili; quando diamo la precedenza alle cose sulle persone, agli interessi materiali sugli affetti. La fragilità rimane una grande sfida: da sempre essa ha suscitato interrogativi, problemi, dubbi. Un personaggio della Bibbia è diventato una sorta di riferimento per coloro che hanno il coraggio di riflettere sul dolore. Si tratta di Giobbe: con il suo nome chiamiamo chi soffre ingiustamente e chi giustamente ha motivi per lamentarsi. Con Giobbe ci chiediamo: perché dobbiamo soffrire e morire?
Molti non conoscono le parole che la Bibbia mette sulle labbra di Giobbe nel momento in cui il contatto con il dolore diventa bruciante. Parole simili, forse, le abbiamo gridate noi stessi, una o tante volte:
Perisca il giorno in cui nacqui... Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? Perché due ginocchia mi hanno accolto, e due mammelle mi allattarono? ... Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi di illusione e notti di affanno mi sono state assegnate... Ricordati che un soffio è la mia vita, il mio occhio non rivedrà più il bene.
(Giobbe 3,3. 11-12; 7,2-3. 7)

 

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