letterina 20170101

La non-violenza: stile di una politica per la pace

Monticelli

Questo è il Messaggio per la 50ª Giornata Mondiale della Pace.

Nel primo, il beato Papa Paolo VI si rivolse a tutti i popoli, non solo ai cattolici, con parole inequivocabili: «E’ finalmente emerso chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)». ...

2. Il secolo scorso è stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la minaccia della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi purtroppo siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi.
Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i moderni mezzi di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti ad essa. In ogni caso, questa violenza che si esercita “a pezzi”, in modi e a livelli diversi, provoca enormi sofferenze di cui siamo ben consapevoli: guerre in diversi Paesi e continenti; terrorismo, criminalità e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle vittime della tratta; la devastazione dell’ambiente. A che scopo? La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi “signori della guerra”? La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato.
Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti.

3. Anche Gesù visse in tempi di violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7,21)...
Essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire anche alla sua proposta di nonviolenza.

Dal Messaggio di papa Francesco per la Giornata della Pace

 

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letterina 20161225

Natale sei tu... (papa Francesco)

Monticelli

Il Natale di solito è una festa rumorosa, ci farebbe bene un po’ di silenzio per ascoltare la voce dell’Amore.

Natale sei tu, quando decidi di nascere di nuovo ogni giorno e lasciare entrare Dio nella tua anima.
L’albero di Natale sei tu quando resisti vigoroso ai venti e alle difficoltà della vita.
Gli addobbi di Natale sei tu quando le tue virtù sono i colori che adornano la tua vita.
La campana di Natale sei tu quando chiami, raccogli e cerchi di unire.
Sei anche luce di Natale quando illumini con la tua vita il cammino degli altri con la bontà, la pazienza, l’allegria e la generosità.
Gli angeli di Natale sei tu quando canti al mondo un messaggio di pace, di giustizia e di amore.
La stella di Natale sei tu quando conduci qualcuno all’incontro con il Signore.
Sei anche i Re magi quando dai il meglio che hai senza tenere conto a chi lo dai.
La musica di Natale sei tu quando conquisti l’armonia dentro di te.
Il regalo di Natale sei tu quando sei un vero amico e fratello di tutti gli esseri umani.
Gli auguri di Natale sei tu quando perdoni e ristabilisci la pace anche quando soffri.
Il cenone di Natale sei tu quando sazi di pane e di speranza il povero che ti sta di fianco.
Tu sei la notte di Natale quando umile e cosciente ricevi nel silenzio della notte il Salvatore del mondo senza rumori ne’ grandi celebrazioni.
Tu sei sorriso di confidenza e tenerezza nella pace interiore di un Natale perenne che stabilisce il regno dentro di te.
Un buon Natale a tutti coloro che assomigliano al Natale.

Con questi sentimenti viviamo il Natale del Signore.
don Giuseppe, don Roberto, don Giampaolo e don Paolo.

 

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letterina 20161218

Non andar via Giuseppe...

Monticelli

Mattia è un ragazzino con la sindrome di Down, robusto e simpaticamente un po’ goffo, ma sempre servizievole, volenteroso e sorridente.
L’avvenimento più importante della scuola, ogni anno, era la recita natalizia. Coinvolgeva tutto e tutti.
Mattia come ogni anno pensava di fare il pastore col flauto ma la maestra decise di premiarlo con un ruolo di scena. Era in quinta e sarebbe stata l’ultima recita di Natale. La parte del locandiere comportava poche battute e Mattia, più grande degli altri, avrebbe dato forza scenica al rifiuto di accogliere Giuseppe e Maria nella locanda.
La sera della rappresentazione c’era un folto pubblico. Nessuno viveva la magia della notte di Betlemme più intensamente di Mattia, totalmente preso dal suo ruolo. Venne il momento dell’entrata in scena di Giuseppe, che avanzò piano sorreggendo teneramente Maria. Giuseppe bussò forte alla porta della locanda. L’oste, era là, in attesa: “Che cosa volete?” chiese Mattia, con un tenerissimo aggrottato sguardo che voleva essere burbero. “Cerchiamo un alloggio”. “Cercatelo altrove. Siamo al completo! Non c’è posto per voi!”, il tono di Mattia, tutto preso nella parte, era molto deciso. “La prego, buon signore, mia moglie Maria aspetta un bambino, e ha bisogno di riposare, anche solo un angolino”.
A questo punto, Mattia il locandiere guardò verso Maria. Seguì una pausa di silenzio, lunga abbastanza da far serpeggiare un filo d’imbarazzo tra il pubblico. “No! Andate via!”, sussurrò il suggeritore da dietro le quinte. “No! – ripeté Mattia automaticamente – andate via!”. Rattristato, Giuseppe strinse a sé Maria, che gli appoggiò sconsolatamente la testa sulla spalla e cominciò ad allontanarsi con lei. Invece di richiudere la porta, però, Mattia l’oste, rimase sulla soglia con lo sguardo fisso alla coppia. Aveva la bocca aperta, la fronte solcata da intense rughe e i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime. Tutto ad un tratto, quella recita divenne particolare, unica. “Non andar via Giuseppe – gridò Mattia – riporta qui Maria”. E, con il volto illuminato da un grande sorriso, aggiunse: “Potete prendere la mia stanza, io dormo sul divano!”.
Secondo alcuni Mattia aveva rovinato la rappresentazione, aveva bloccato tutta la scena, che non funzionava più. Per altri, il colpo di scena di Mattia creò la più natalizia di tutte le rappresentazioni che avessero mai visto.

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letterina 20161211

...anche noi...

Monticelli

Ascoltare, sperimentare, testimoniare: sono gli ingredienti più importanti della catechesi per gli adulti secondo le indicazioni di fratel Enzo Biemmi, nei giorni scorsi a Bergamo per un incontro con i catechisti della nostra diocesi.
«Ci troviamo – spiega fratel Enzo – in un momento di passaggio molto forte dal punto di vista culturale. Gli adulti che abbiamo di fronte hanno seguito la catechesi tradizionale, hanno una formazione cristiana, ma poi – per la maggior parte – si sono allontanati dalla comunità. Hanno un’infarinatura di cristianesimo che però non ha fatto presa sulla vita delle persone, sulle loro scelte, salvo alcune eccezioni. Credo che la sfida più difficile e importante sia accompagnare questi adulti a una riscoperta della fede non di tipo intellettuale ma nell’esperienza, nella vita.
Ci sono alcune esperienze che, come indicano anche gli Orientamenti sulla catechesi della Cei del 2014, possono diventare vere e proprie soglie di fede, ovvero concrete possibilità di riavvicinarsi». Sono momenti che coincidono in genere con esperienze forti, cruciali della vita: come quando ci si innamora, si battezza un bambino, lo si accompagna nei sacramenti di iniziazione cristiana.
«Da parte della Chiesa – sottolinea fratel Biemmi – è importante che non ci sia soltanto un annuncio verbale del messaggio cristiano ma uno stile di accoglienza, una proposta di esperienze che possano far riscoprire come significativa una parola bella di Vangelo, un patrimonio di formazione religiosa che è rimasto lì latente. Poi ci sono passaggi invece difficili, periodi di crisi, comunque decisivi: problemi a livello familiare, il fallimento di un matrimonio, una malattia, un lutto. La proposta di fede dev’essere legata a ciò che le persone realmente vivono e non alla sistematicità dei contenuti da trasmettere». Una catechesi, insomma, marcatamente più narrativa e più partecipata, ormai patrimonio di molte diocesi italiane. Ci siamo discostati dal metodo espositivo dottrinale, si tratta molto di più di catechesi con gli adulti piuttosto che agli adulti o per gli adulti.
Chi accompagna si implica personalmente in modo testimoniale, c’è spazio per uno scambio di esperienze e per l’ascolto della parola di Dio». «Chi frequenta la catechesi per adulti apprezza di poter avere accanto persone che leggono con loro, dialogano, si confrontano sulla vita, non hanno paura a manifestare se stessi e la propria ricerca di fede, e questo convince molto di più di un incontro in cui vengono semplicemente trasmessi contenuti, anche se in modo molto competente».

Non vi pare che sia ciò che anche noi stiamo facendo con i gruppi nelle case?

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letterina 20161204

Balsamo per molte ferite

Monticelli

Con una formula originale, Alessandro D’Avenia nel suo ultimo libro: L’arte di essere fragili, si pone alcune domande decisive della vita, scrivendo lettere ad un poeta liquidato spesso come pessimista e sfortunato, Giacomo Leopardi. Ogni capitolo parte sempre da una citazione delle opere del poeta, anche quello dal titolo: L’adolescenza non è una malattia, di cui leggiamo un assaggio.
In questi anni di insegnamento e incontri, ho visto ragazzi già annoiati, stanchi, corrosi dalla monotonia, arrugginiti, dagli occhi spenti, quasi vecchi. Non la maggioranza, ma c'erano. Ma tu mi hai insegnato che serve poco per ravvivare quel fuoco nascosto tra la cenere: basta, per esempio, citare le parole di un poeta, di uno scrittore, magari proprio le tue, per scoprire ciò che dà consistenza alle speranze, ciò che rende reale l'invisibile: l'invisibile della statua nell'idea, dell'albero nel seme, della cattedrale nello schizzo, dell'amore in un primo sguardo.
Mi hanno colpito le parole di una studentessa di quindici anni che attraversava un momento di particolare fragilità e alla quale avevo prestato un libro, il diario di Etty Hillesum, una ragazza ebrea che racconta la sua maturazione a contatto con l'orrore nazista, che le spezzerà il corpo ma non lo spirito. Etty trasforma ogni cosa in vita, perché ogni cosa nell'interiorità, in particolare in quella femminile, può diventare vita feconda. Trasforma in vita persino la sua morte, chiudendo il diario con una frase che porto scolpita nel cuore e nella testa: "Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite".
Dopo aver letto il libro, quella ragazza mi ha scritto: "Volevo ringraziarla per avermi prestato un libro tanto prezioso: se prima mi limitavo a vedere il bianco e il nero nella vita, ora le sfumature fanno parte di me. Certo mi è impossibile non vedere, di tanto in tanto, cose che mi rattristano, ma non oso più incolpare la vita di questo, non la considero più ingiusta o cattiva. Semplicemente vivo le situazioni spiacevoli e affido a Dio il mio dolore. Etty è così simile a me che leggendo per la prima volta le sue parole mi sono sentita finalmente Bene (con la B maiuscola), era come se quelle parole fossero lo specchio dei miei pensieri. Ho segnato su un quaderno quasi ogni frase che mi è sembrata vicina a me e a ciò che sto provando in questo momento ed è stato liberatorio, come ammettere che quel dolore c'è e che anche qualcun altro lo ha vissuto.
Etty e io siamo così vicine che avrei tanto voluto parlarle, dirle proprio quelle cose che io vorrei sentirmi dire. Mi ha insegnato molto, con la sua giovane irrequietezza, forza, fede, ma soprattutto con il suo amore inarrestabile per la vita".

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letterina 20161127

La luce di una presenza

Monticelli

Al di fuori del contesto liturgico «avvento» è parola poco frequente. Comunque, quando la si impiega, indica una realtà già presente: «con l'avvento dell'automobile l'isolamento dei piccoli paesi è cessato», «con l'avvento di internet si è rivoluzionata la comunicazione» e così via.
Lo specifico della fede sta invece nell' associare questo termine a un'attesa: quale? Nel senso più comune si tratta della festa di Natale. L'Avvento è il periodo liturgico che prepara appunto quella festa.
Nella prassi è, il più delle volte, una realtà legata all'età infanzia. Tutti gli adulti ricordano i tempi passati in cui si aspettava che giungesse il regalo tanto desiderato. A partire dai primi di autunno, nella consuetudine dei genitori vige tuttora la tattica di rimandare al 25 dicembre la soddisfazione di desideri espressi da parte dei loro figli piccoli.
Una consuetudine propria dei paesi di lingua tedesca, ormai presente anche dalle nostre parti, sono i calendari dell'Avvento: ogni giorno si apre una finestrella in attesa di giungere a quella grande e doppia della vigilia di Natale. Se ci si riflettesse, da questa usanza si ricaverebbe un insegnamento da non sottovalutare: conosciamo la méta (tutti sanno che l'ultima finestra rappresenterà una Natività), ma ignoriamo cosa esattamente ci riserva la strada (non sappiamo quale disegno troveremo nella finestrella del giorno dopo: un cavallino a dondolo? Una pallina di vetro? Un bastone di zucchero?).
Anche la liturgia nel corso di quattro settimane prepara i fedeli alla solennità di Natale. Quanto le è proprio è di far rivivere un'attesa antica insegnando di nuovo ad attendere. La sintesi di questi due atteggiamenti si chiama speranza. E’ una virtù che la tradizione cristiana definisce teologale. Proprio perché l'Atteso è già giunto si è chiamati a sperare. Anche i credenti, come i bimbi, conoscono la meta mentre restano all'oscuro delle sorprese, belle, ma non di rado anche dolorose, nascoste dietro le finestrelle del nostro immediato futuro. Nessuno sa che cosa domani gli riserverà la vita; un motto che vale sia per individui sia per le collettività. La speranza ci dice che nella finestrella, anche dura, del nostro oggi e del nostro immediato domani, albeggia già la luce di una Presenza.

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