letterina 20180805

Ricchi l’uno dell’altro

Leggiamo una novella di O. Henry (William Sydney Porter 1862 – 1910)

Un dollaro e ottantasette centesimi. Era tutto quel che c’era. Centesimi risparmiati uno per volta, mercanteggiando sulla spesa. Delly contò il denaro per tre volte. Un dollaro e ottantasette centesimi. Non c’era più niente da fare se non piangere sul piccolo divano liso. L’indomani sarebbe stato il giorno del loro decimo anniversario e lei possedeva solamente un dollaro e ottantasette centesimi con il quale comperare il regalo per Jim. Il suo Jim.
Dovete sapere che Jim e Delly sono poveri, ma possiedono due cose di cui sono enormemente orgogliosi: una è il vecchio orologio di Jim, che apparteneva al nonno, l’altra sono i meravigliosi capelli di Delly, che come una cascata scura scendono fino in fondo alla sua schiena dritta e magra. Ciascuno sapeva che l’altro aveva nel cuore un sogno inappagato. Lui sognava una catena per l’orologio che legava a sé con lo spago, lei sognava dei piccoli pettini di madreperla decorati da poter infilare tra i lunghi capelli mossi, come un diadema.
Passavano gli anni e continuavano a custodire il loro sogno di un regalo d’amore. Delly raccolse i suoi lunghi capelli e partì alla ricerca di qualcosa da donare a Jim per questo importante anniversario, con un dollaro e ottantasette centesimi. Saltando da una vetrina all’altra vide una targa: “Mme Sofronie parrucche. Si comprano capelli”. Un nodo alla gola, due dense lacrime: si decise ad entrare. Ne ebbe venti dollari e corse alla vecchia vetrina dove il suo Jim posava sempre lo sguardo su una catena per il suo orologio. Era come lui: semplice e di valore. Costava ventun dollari. Tornò a casa gioiosa con gli ottantasette centesimi che le restavano, senza i suoi lunghi capelli, ma con il cuore straripante.
Delly si sedette vicino alla porta aspettando il suo Jim e stringendo la catena nella mano affusolata e pallida. La porta si aprì, con il cuore in gola gli tese la mano col regalo. Jim quasi impietrito, senza dire nulla, prese un pacchettino dalla tasca del suo vecchio cappotto e lo diede a Delly. C’erano i pettinini di madreperla con gli orli decorati, proprio quelli che lei aveva adorato a lungo in una vetrina a Broadway. Adesso erano suoi, ma non c’erano più i suoi meravigliosi capelli. Jim crollò sul divano consumato, mise le mani dietro la nuca e sorrise. “Delly – disse lui – metti da parte i nostri regali, sono troppo belli per poterli usare ora. Ho venduto il mio vecchio orologio per comprare i tuoi pettinini!”. E si abbracciarono, senza più niente, poveri di tutto, ma ricchi soltanto l’uno dell’altro. 

 

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3. Tracolla ASICS GIALLO 931
4. Brindisi! – Spumante con flute GIALLO 562
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6. Valigetta “100 giochi ROSSO 054
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11. Orologio Shocking Colors VERDE 110
12. Set 4 tazzine da caffè GIALLO 412
13. Scola(con)Pasta GIALLO 916
14. Spremiagrumi Gio’Style ROSA 892
15. Set scuola ROSA 658

Premi ritirabili c/o il bar dell’Oratorio fino al 9 Settembre 2018.

 

 

letterina 20180729

La decima

Il vescovo Mario Delpini, nel suo primo discorso alla città di Milano, aveva fatto l'elogio delle istituzioni e la proposta di un'alleanza per costruire un buon vicinato. Ecco alcuni interessanti stralci delle sue riflessioni.

L’arte del buon vicinato comincia con uno sguardo. Ecco: mi accorgo che esisti anche tu, mi rendo conto che abiti vicino. Mi accorgo che hai delle qualità e delle intenzioni buone: anche tu vorresti essere felice e rendere felici quelli che ami. Mi accorgo che hai bisogno, che sei ferito: anche tu soffri di quello che mi fa soffrire. Il buon vicinato comincia con uno sguardo. (...)

Per il buon vicinato ci sono contributi da offrire che non si possono monetizzare. Hanno un costo, ma sono senza prezzo. E vorrei proporre a tutti la regola delle decime. È una pratica buona molto antica, attestata anche nella Bibbia, un modo per ringraziare del bene ricevuto, un modo per dire il senso di appartenenza e di condivisione della vita della comunità. (...)

La regola delle decime invita a mettere a disposizione della comunità in cui si vive la decima parte di quanto ciascuno dispone.
Ogni dieci parole che dici, ogni dieci discorsi che fai, dedica al vicino di casa una parola amica, una parola di speranza e di incoraggiamento....
Se sei uno studente o un insegnante, ogni dieci ore dedicate allo studio, dedica un’ora a chi fa fatica a studiare.
Se sei un ragazzo che ha tempo per praticare sport e divertirsi, ogni dieci ore di gioco, dedica un’ora a chi non può giocare, perché è un ragazzo come te, ma troppo solo, troppo malato.
Se sei un cuoco affermato o una casalinga apprezzata per le tue ricette e per i tuoi dolci, ogni dieci torte preparate per casa tua, dedica una torta a chi non ha nessuno che si ricordi del suo compleanno.
Se tra gli impegni di lavoro e il tempo degli impegni irrinunciabili, disponi di tempo, ogni dieci ore di tempo libero, metti un’ora a disposizione della comunità, per un’opera comune, per un’iniziativa di bene: dai tempo al bene del vivere insieme, nelle emergenze e nelle feste, nel servizio alle persone e nella cura dell’ambiente.
Se disponi di una casa per te e per la tua famiglia, ogni dieci accorgimenti per abbellire casa tua, dedica un gesto per abbellire l’ambiente intorno. (...)

 

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letterina 20180722

Se avessi un figlio...

Impressioni a caldo di fine Cre.

- Quando si comincia a pensare e a progettare sembra una macchina un po’ pesante. Poi arriva il tempo della formazione animatori, i primi programmi, le novità, le gite, le iscrizioni e si comincia a carburare. Poi il primo giorno, con l’accoglienza, la presentazione dell’inno e del tema, la formazione delle squadre, i laboratori... e in un battibaleno si è all’ultima settimana. Ed è già finito!
Ma è passato un mese. Un po’ stanchi certo, ma con una evidenza: è stato bello e, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo.

- Un’animatrice che per motivi familiari è partita prima della fine scrive in un sms: Grazie mille! Quando ho saputo della mia partenza improvvisa mi sono messa le mani nei capelli per tutto, mi è dispiaciuto un sacco, ma purtroppo non ho potuto fare altro. Non vedo l’ora di rivedervi!!! Questo è il bello del Cre: che già mi manca.

- Ci sono alcune cose che caratterizzano ogni Cre: ginocchia sbucciate, guance arrossate, magliette bagnate, squadre affiatate. Tutto in rima, come nella poesia declamata alla festa finale. E poi è bellissimo, anche senza rima, ma con tanto appetito, vedere mangiare i nostri ragazzi. Sarà perché si mangia insieme numerosi, sarà perché le cuoche sono brave, sarà perché si corre e si gioca tutto il giorno, sarà perché... ma è così. Bis, tris e poi fermiamoci perché l’Asl non vuole.

- Alcuni messaggi scritti sul librone in chiesa:
* Caro Gesù, ormai questo mese di Cre è finito. Ringrazio i coordinatori, le cuoche, le bariste, ma soprattutto te. Ti voglio bene. A.
* Caro Gesù ti ringrazio per avermi fatto vivere questa esperienza, il Cre. Lo so che ormai è finito, ma io lo vivrò sempre. L.
* Caro Gesù, ti ringrazio per il Cre che è la cosa più bella dell’estate e per gli animatori che lo organizzano.
* Caro Gesù, ti voglio ringraziare per tutto: la mia vita, il mio amore e la mia famiglia. Grazie per l’esperienza del Cre. Fai finire tutti i miei litigi. Proteggici sempre. Il tuo caro amico M.

Insomma, se avessi un figlio lo manderei al Cre. Di Palazzago.
Ma un po’ li sento tutti figli. Ecco perché a 50 anni faccio ancora il Cre.

Infine, un piccolo suggerimento ai genitori (degli animatori): la borsa di calcio o di pallavolo o di danza o di... fatela sistemare ai figli; la stanza, la riordinino loro; qualche lavoro domestico non guasta certamente. Non toccherà al Cre insegnare a tenere in mano una scopa, a chiudere le tempere, a fare la raccolta differenziata e tanto altro. Questo è un modo per aiutarci. E per aiutarli.

 

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letterina 20180715

L’anima c’è ma...

Lo conosciamo come spesso lui si presenta: "Sono il 33% del Trio". Il trio è quello composto da Aldo, Giovanni e Giacomo; lui è Giacomo Poretti, classe 1956, infanzia trascorsa in paese (Villa Cortese), vita adulta a Milano. È lui che darà vita, martedì 17 luglio, all’evento clou della settimana di Avvenire e Il Popolo. Lo fa portando in scena lo spettacolo "Fare un’anima".

Come si fa un’anima?
Non lo so, è difficilissimo, specie di questi tempi, perché è una modalità e quindi una parola fuori moda. Anima: suona antica, roba da soffitta. La soffitta delle parole è il dizionario e, quando finiscono lì, sono belle che morte. Lo spettacolo nasce proprio da questa considerazione, dalla comprensione di questo non attuale interesse. Riflette sulla scarsa attitudine del mondo d’oggi all’anima.
Da cosa nasce uno spettacolo così?
Nasce da quello che un sacerdote dice a un papà che ha appena avuto un bambino: "Bravi, avete fatto un corpo, adesso dovete fare un’anima". Sembrava una frase insensata o relegata alla dimensione religiosa e, invece, ha lavorato dentro.
Il papà era lei?
Sì, ero io. Ma credo che la frase sia stata rivolta anche ad altri.
L’anima è da riscoprire o da costruire?
L’anima c’è già. Va scoperta e va creduta. A noi capita qualcosa di straordinario e terribile: il percepire qualcosa, una presenza. Il sentirla e non vederla, perché è una presenza non corporea. E per di più questo nostro sentire è da confermare sempre, per quella bellissima e tragica libertà di scegliere che ci è stata data.
Ma senza il don Giancarlo dell’oratorio sarebbe mai arrivato ad uno spettacolo sull’anima?
Certo, il don Giancarlo del mio oratorio di Villa Cortese, della mia infanzia, quello che da solo faceva da tata a tutti i ragazzi del paese ogni pomeriggio… (ne parla nel suo primo romanzo "Alto come un vaso di geranei" ndr.). É stato una figura importante. Ma poi anche i miei genitori, la suora dell’asilo, i nonni... Gli altri contano: ci sollecitano, ci provocano, ci dicono qualcosa che magari al momento resta lì, ma non è perso, rimane dentro.
Lei ha fatto anche da testimonial per l’oratorio. Ci tiene proprio.
L’ho fatto un paio di anni fa. E l’ho fatto con molta contentezza. Ma anche con la consapevolezza che non ha più la funzione di occuparsi in toto dei ragazzi come capitava con noi. Il mondo cambia e cambiano le esigenze. Però ritengo importante che ci sia.
Guardando il suo percorso, sembra che da qualche tempo la dimensione del mistero, della fede, sia più presente. È più presente o c’è più coraggio nel manifestarla?
Emerge adesso perché c’è adesso, corrisponde al mio percorso personale. È una dimensione a cui magari capita di dare poca importanza, poi qualcosa accade. E dopo, manifestarla non è un atto di coraggio. Senti che è una cosa talmente bella che hai voglia di dirlo. Un po’ come per chi fa una scoperta e lo racconta al mondo.
È a Bibione per la festa dell’Avvenire. Che rapporto c’è?
Ho cominciato a scrivere per La Stampa. Capita così: vieni letto, poi ci si conosce e ci si frequenta. Piano piano il legame è andato saldandosi con il direttore Marco Tarquinio e con Francesco Ognibene.
Ho letto che collabora con l’Ufficio delle Comunicazioni sociali della Curia di Milano.
Diciamo che saltuariamente collaboro, quando il cardinale o il vescovo hanno ritenuto di averne bisogno.
Come è iniziato e cosa ha fatto?
È partito tutto dal cardinale Scola che ha voluto creare due grandi eventi in piazza Duomo, eventi da 40/50 mila persone. Uno per Expo, legato alla alimentazione; l’altro era un dialogo sulla Madonna, per l’esposizione della reliquia del Sacro Chiodo, conservato in Duomo.
Dagli articoli ai libri: quanto conta la scrittura per lei?
La scrittura mi piace molto. Ultimamente è la cosa che mi piace di più. Ho trovato la modalità giusta per esprimermi.
Scriveva anche i testi per il Trio?
No, lì c’era più improvvisazione. Poi ci pensavano altri a fissare sulla carta il nostro lavoro. Questa della scrittura è una dimensione tutta mia, personale.
Lei ha fatto l’operaio e le serali, poi l’infermiere, poi il comico. La sua parabola può essere un esempio per i "neet", purtroppo un primato italiano in Europa. Manca un sogno a questi ragazzi?
La questione è grande e seria. Non posso che rispondere facendo una enorme semplificazione: io sono nato alla fine degli anni ’50. C’era una tale fame di realizzazione nelle persone del dopoguerra, era la fame di affrancarsi dalla povertà. La pubblicità proponeva: un frigo per ogni famiglia. Ed era vero, noi non avevamo niente. Io e mia sorella non avevamo niente. E allora c’era la corsa ad accaparrarsi il bagno, il frigo, anche il lavandino a casa mia. C’era fame di conquista. Così, tutti avevamo una strada segnata. Oggi, invece, non si sa. Questo è il punto. Non si sa perché si fa quel che si fa. Guardi, quando il papa parla degli ultimi, io penso ai metropolitani.
Ci serve una spiegazione.
Noi ci dobbiamo occupare degli ultimi: così dice Francesco. E dice bene. Ma, vivendo io in una metropoli, non posso non pensare a quelli che vedo. I metropolitani, i milanesi corrono sempre, sono inquieti: fanno tanto e non sanno perché. Vale ancora di più per i ragazzi. Non si sa perché si fa tutto quello che si fa.
Ha nominato il Papa. Una foto vi immortala a San Siro.
Ho avuto fortuna. Tra le migliaia di mani che ha stretto c’era anche la mia. Non ho avuto incontri personali. Lo seguo, è molto carismatico, esce dagli schemi. Lui arriva. Ma oggi si prende solo quello che serve. Vale anche per sacerdoti, religiose e uomini di fede: dicono cose significative e interessanti ma poi vengono diciamo ’quasi’ ascoltati o ’apparentemente’ ascoltati. Apparentemente è un avverbio che ci metterei proprio.
Eppure ha titolato il suo ultimo libro: "Al paradiso è meglio credere".
Il titolo riprende una frase di Pascal, la sua scommessa. Lui, inventore della statistica e della probabilità, aveva fatto un ragionamento sulla fede ed era giunto alla conclusione che sì, al paradiso conviene credere.
Per questo il protagonista si finge prete?
Non riesce a credere ma è attanagliato da questa fede mancata. Il pensiero lo perseguita. E allora, poiché non è riuscito ad averla dentro, la indossa con la veste. Fa il falso prete, perché non riesce ad essere un credente vero.
Lei ha dichiarato: "Dio è un artista". Lo è anche lei: un’intesa doveva arrivare…
L’affermazione è forte. Lui è un artista per certo: basta guardarsi attorno. Io l’ho detto perché - anche se qui sintetizzo un concetto impossibile da sintetizzare - mi pare che il senso della vita, almeno come io l’ho compresa, è che lui voglia la gioia. E che noi, accettando la vita, con gioia ci mettiamo a giocare con Lui.

Simonetta Venturin

 

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letterina 20180708

Tre porte

Un proverbio arabo recita: “Ogni parola, prima di essere pronunciata, dovrebbe passare attraverso tre porte. Sulla prima c’è scritto: È vera? Sulla seconda c’è la domanda: È necessaria? Sulla terza porta è scolpita la scritta: È buona?”.
C’è molta sapienza in questo detto. Dalla parola, infatti, dipende la comunicazione e da questa la possibilità della comunione e quindi della qualità della vita umana. Quanto meglio uno comunica, tanto più si umanizza. Nella parola c’è la possibilità più decisiva per uscire da se stessi e raggiungere l’altro, gli altri. Per questo il nostro Dio è un Dio che parla, e tutta la Bibbia è una testimonianza di questa Parola rivolta all’umanità in tempi e luoghi diversi fino a farsi “carne” in Gesù, uomo che ha parlato e vissuto con noi. Eppure la parola non è facile, né garantita, né spontanea. Occorre generarla ricevendo un seme di parola da altri, permettendo in noi una gestazione lunga, in cui la parola prenda forma e cresca, e poi occorre partorirla nella fatica, facendola venire al mondo. Non c’è parola senza una gravidanza di silenzio e disciplina che la preceda. Non c’è parola nostra che non nasca dalla parola di altri. Lungo mestiere quello di imparare a parlare... Il Vangelo ci raccomanda che il nostro parlare sia “’Sì, sì’, ‘No, no’” (Mt 5,37). E tuttavia ciascuno di noi purtroppo conosce bene le conseguenze disastrose della menzogna, soprattutto nella famiglia e nella comunità, dove l’assiduità dei rapporti, delle parole scambiate, fornisce molte occasioni alla menzogna e ne amplifica i danni. I monaci sanno che nella vita comune la menzogna inizia dalla chiacchiera inutile, dal parlare per far tacere la propria solitudine, oppure dal parlare per apparire all’altro con una maschera, non con il proprio e semplice “essere”. Tale atteggiamento scivola poi nella mormorazione, il detestabile vizio tipico dei pusillanimi. Dalla mormorazione si passa poi facilmente alla calunnia, alla maggiorazione dei fatti, a un’interpretazione sviante o manipolatoria. A questo punto l’omicidio è già avvenuto: la parola menzognera, infatti, uccide... L’antidoto è il faticoso esercizio e la pratica quotidiana della parresía, il dire il vero con semplicità e retta intenzione.
Si commetteranno ugualmente errori nella comunicazione, ma almeno non si sarà consumata la menzogna, e la relazione potrà ricominciare di nuovo. Se qualcuno va in collera, l’altro al momento si sente ferito, ma se “il sole non tramonta sull’ira” (cf. Ef 4,26) la relazione può ricominciare, perché comunque la fiducia non è messa in dubbio. Se invece accade la menzogna, è difficile ricominciare: un vaso rotto è sempre rotto, in frantumi, anche quando si attaccano i cocci! Anche allora però non tutto è perduto: resta la nobile e difficile arte del kintsugi. Come l’abile ceramista “ripara con l’oro” le fratture di un oggetto spezzato, così al discepolo di Gesù è chiesto di imparare a risanare con l’oro della carità le cicatrici provocate dalla menzogna. Cfr Enzo Bianchi

 

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letterina 20180701

Temi semplici?

I ragazzi intervistati sulle gradinate delle scuole dopo la prima sessione degli esami di maturità hanno risposto alle domande dei giornalisti con serenità. La gran parte di loro ha giudicato “semplici” le tracce proposte per la prima prova, il tema di italiano. In effetti la rosa delle proposte quest’anno è stata “fattibile”, facendo riferimento a un patrimonio di conoscenze concrete degli studenti. Argomenti certamente trattati nel corso degli studi a diversi livelli e sotto varie angolature. Temi attuali, fra l’altro, che richiamano urgenze contemporanee come il principio dell’uguaglianza, l’antisemitismo e tutte le altre forme di discriminazione, l’europeismo, il concetto di propaganda e i temi della bioetica.
Non ultima urgenza (di natura più filosofica), la riflessione sulla solitudine come tema esistenzialistico e spazio dedicato alla ricerca della propria essenza e anche della propria dimensione creativa, oggetto anch’essa di una delle proposte di esame. Insomma, molta carne al fuoco... In un certo senso, in occasione degli esami di maturità, due (o più) generazioni diverse si incontrano e dialogano e, anche se a fare da sfondo disturbante c’è la componente ansia, ciò che ne emerge è un confronto socio antropologico assai interessante. Sempre che ci siano le parole sufficienti per poterlo esprimere... Eh sì, perché le parole ancora una volta sono il nodo di questo e di qualsiasi altro confronto.
Umberto Galimberti, nel suo ultimo saggio “La parola ai giovani”, denuncia il fatto che le nuove generazioni abbiano perso proprio la dimestichezza nell’uso delle parole. Il vocabolario personale di un giovane si è ridotto a poche centinaia di parole. “Riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri a cui non corrisponde una parola. Le parole non sono strumenti per poter esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per poter pensare”. In molti pensano che saper scrivere ormai sia inutile in un mondo in cui a contare non sono più le parole, ma i fatti, e ancor più dei fatti, le immagini”. La difficoltà, quindi, sta proprio nell’espressione della propria identità e del proprio modo di pensare che può fondarsi solo attraverso la costruzione di riflessioni, e cioè attraverso la famosa attitudine speculativa tanto cara ai filosofi del tempo antico. Senza la ricerca e l’analisi del pensiero qualsiasi argomento diventa una vetta irraggiungibile, anche ciò che all’apparenza ci pare “semplice”. Riprendendo appunto l’aggettivo usato dai giovani studenti intervistati per definire la prova proposta.
L’eguaglianza, la conoscenza di sé, la storia... non sono affatto temi semplici.

 

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