letterina 20150627

Il papa ai giovani

Giuda

...Sapete che a me danno tanta tristezza al cuore i giovani che vanno in pensione a 20 anni! Sì, sono invecchiati presto… Per questo, quando Chiara faceva quella domanda sull’amore: quello che fa che un giovane non vada in pensione è la voglia di amare, la voglia di dare quello che ha di più bello l’uomo, e che ha di più bello Dio, perché la definizione che Giovanni dà di Dio è “Dio è amore”. E quando il giovane ama, vive, cresce, non va in pensione. Cresce, cresce, cresce e dà. Ma che cos’è l’amore?
“E’ la telenovela, padre? Quello che vediamo nei teleromanzi?” Alcuni pensano che sia quello l’amore. Parlare dell’amore è tanto bello, si possono dire cose belle, belle, belle. Ma l’amore ha due assi su cui si muove, e se una persona, un giovane non ha questi due assi, queste due dimensioni dell’amore, non è amore.
Prima di tutto, l’amore è più nelle opere che nelle parole: l’amore è concreto. Non è amore soltanto dire: “Io ti amo, io amo tutta la gente”. No. Cosa fai per amore? L’amore si dà. Pensate che Dio ha incominciato a parlare dell’amore quando si è coinvolto con il suo popolo, quando ha scelto il suo popolo, ha fatto alleanza con il suo popolo, ha salvato il suo popolo, ha perdonato tante volte – tanta pazienza ha Dio! –: ha fatto, ha fatto gesti di amore, opere di amore.
E la seconda dimensione, il secondo asse sul quale gira l’amore è che l’amore sempre si comunica, cioè l’amore ascolta e risponde, l’amore si fa nel dialogo, nella comunione: si comunica. L’amore non è né sordo né muto, si comunica. Queste due dimensioni sono molto utili per capire cosa è l’amore, che non è un sentimento romantico del momento o una storia, no, è concreto, è nelle opere. E si comunica, cioè è nel dialogo, sempre.

Discorso di Papa Francesco ai ragazzi e ai giovani in visita pastorale a Torino (21/6/2015)

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letterina 20150620

Scintilla d'infinito

Giuda

“Per Elisabetta si compì il tempo e diede alla luce un figlio”. Arriva Giovanni.
I figli vengono alla luce come compimento di un progetto, vengono da Dio.
Caduti da una stella nelle braccia della madre, portano con sé scintille d’infinito: gioia (e i vicini si rallegravano con la madre) e parola di Dio. Non nascono per caso, ma per profezia. Nel loro vecchio cuore i genitori sentono che il piccolo appartiene ad una storia più grande, che i figli non sono nostri: appartengono a Dio, a se stessi, alla loro vocazione, al mondo. Il genitore è solo l’arco che scocca la freccia, per farla volare lontano. Il passaggio tra i due testamenti è un tempo di silenzio: la parola, tolta al tempio e al sacerdozio, si sta intessendo nel ventre di due madri. Dio traccia la sua storia sul calendario della vita, e non nel confine stretto delle istituzioni.
Un rivoluzionario rovesciamento delle parti, il sacerdote tace ed è la donna a prendere la parola: si chiamerà Giovanni, che in ebraico significa: dono di Dio. Elisabetta ha capito che la vita, l’amore che sente fremere dentro di sé, sono un pezzetto di Dio. Che l’identità del suo bambino è di essere dono. E questa è anche l’identità profonda di noi tutti: il nome di ogni bambino è «dono perfetto». Stava la parola murata dentro, fino a quando la donna fu madre e la casa, casa di profeti. Zaccaria era rimasto muto perché non aveva creduto all’annuncio dell’angelo. Ha chiuso l’orecchio del cuore e da allora ha perso la parola. Non ha ascoltato, e ora non ha più niente da dire.
Indicazione che mi fa pensoso: quando noi credenti smarriamo il riferimento alla Parola di Dio e alla vita, diventiamo afoni, insignificanti, non mandiamo più nessun messaggio a nessuno.
Eppure il dubitare del vecchio sacerdote non ferma l’azione di Dio. Qualcosa di grande e di consolante: i miei difetti, la mia poca fede non arrestano il fiume di Dio.
Zaccaria incide il nome del figlio: «Dono-di-Dio», e subito riprende a fiorire la parola e benediceva Dio. Benedire subito, dire-bene come il Creatore all’origine (crescete e moltiplicatevi): la benedizione è una energia di vita, una forza di crescita e di nascita che scende dall’alto, ci raggiunge, ci avvolge, e ci fa vivere la vita come un debito d’amore che si estingue solo ridonando vita.

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letterina 20150613

Matrimoni. Divorziati. Comunione

Giuda

Come aiutare a capire che nessuno è escluso dalla misericordia di Dio e come esprimere questa verità nell’azione pastorale della Chiesa verso le famiglie, in particolare quelle ferite e fragili?
Questa era una delle molte domande inviate alle Diocesi come continuazione del discorso aperto al Sinodo della Famiglia. Il problema dell’ammissione dei divorziati, risposati o conviventi, ai sacramenti è tutto in quel “Come”.
Il card. Cristopher Schömborn, arcivescovo di Vienna, figlio di divorziati, alla domanda se alla fine del Sinodo si arriverà ad ammettere i divorziati alla comunione, risponde che purtroppo si vede solo il problema dei divorziati risposati. Ma non si vede il problema della famiglia più ampia, dove normalmente ci sono figli, genitori, forse ancora nonni, fratelli, sorelle, zii… Anche la questione della comunione ai divorziati risposati è una questione di comunità. La sua proposta è che, prima di chiedere se i divorziati risposati possono o meno accedere alla comunione, essi si pongano alcune domande.
Quasi un cammino penitenziale o, diciamo, un cammino di attenzione.
La prima attenzione deve essere per i figli. I genitori che fanno un cammino di penitenza devono chiedersi sempre se stanno usando i figli come ostaggi nel loro conflitto matrimoniale.
La seconda attenzione riguarda la storia del primo matrimonio. Come si può pensare di chiedere la comunione se nel cuore c’è ancora tutto il rancore per ciò che si è vissuto nel matrimonio?
C’è poi una terza attenzione. Questa la deve avere soprattutto la Chiesa. Nelle nostre comunità cristiane ci sono tante persone che mantengono la fedeltà all’ex coniuge anche dopo il divorzio, perché dicono: noi abbiamo promesso l’uno all’altro la fedeltà fino alla morte, e, anche a caro prezzo, vogliamo essere fedeli alle promesse. Che incoraggiamento dà la Chiesa a queste coppie?
Un’ultima attenzione è alla coscienza. Prima di accedere alla comunione, al di là di tutto, c’è una questione a cui ognuno deve rispondere davanti a Dio. Come mi trovo io, in coscienza, con la mia storia davanti a Dio? Questo vale naturalmente non solo per i divorziati, ma per tutti quelli che vanno a fare la Comunione.
Come si vede, il discorso dei sacramenti ai divorziati è serio e non è da prendere con faciloneria.

Liberamente tratto da Santalessandro.org

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letterina 20150606

Disgregarsi - svilirsi

Giuda

Giovedì sera abbiamo vissuto in modo intenso e con una bella partecipazione il Corpus Domini. Poco prima a Roma, papa Francesco parlava dell’Eucarestia con le parole che sono riportate sotto. Le leggiamo perché danno luce anche al nostro desiderio di camminare nell’unione e nella comunione, così come le due processioni (Burligo e Palazzago) che si sono incontrate a metà strada in un Precornelli parato a festa, hanno significato.
“Un testo molto bello della Liturgia di oggi, il Responsorio della seconda lettura dell’Ufficio delle Letture, dice così: «Riconoscete in questo pane, colui che fu crocifisso; nel calice, il sangue sgorgato dal suo fianco. Prendete e mangiate il corpo di Cristo, bevete il suo sangue: poiché ora siete membra di Cristo. Per non disgregarvi, mangiate questo vincolo di comunione; per non svilirvi, bevete il prezzo del vostro riscatto».
C’è un pericolo, c’è una minaccia: disgregarci, svilirci. Cosa significa, oggi, questo “disgregarci” e “svilirci”? Noi ci disgreghiamo quando non siamo docili alla Parola del Signore, quando non viviamo la fraternità tra di noi, quando gareggiamo per occupare i primi posti - gli arrampicatori -, quando non troviamo il coraggio di testimoniare la carità, quando non siamo capaci di offrire speranza. Così ci disgreghiamo. L’Eucaristia ci permette di non disgregarci, perché è vincolo di comunione, è compimento dell’Alleanza, segno vivente dell’amore di Cristo che si è umiliato e annientato perché noi rimanessimo uniti. Partecipando all’Eucaristia e nutrendoci di essa, noi siamo inseriti in un cammino che non ammette divisioni. Il Cristo presente in mezzo a noi, nel segno del pane e del vino, esige che la forza dell’amore superi ogni lacerazione, e al tempo stesso che diventi comunione anche con il più povero, sostegno per il debole, attenzione fraterna a quanti fanno fatica a sostenere il peso della vita quotidiana, e sono in pericolo di perdere la fede. E poi, l’altra parola: che cosa significa oggi per noi “svilirci”, ossia annacquare la nostra dignità cristiana? Significa lasciarci intaccare dalle idolatrie del nostro tempo: l’apparire, il consumare, l’io al centro di tutto; ma anche l’essere competitivi, l’arroganza come atteggiamento vincente, il non dover mai ammettere di avere sbagliato o di avere bisogno. Tutto questo ci svilisce, ci rende cristiani mediocri, tiepidi, insipidi, pagani. Gesù ha versato il suo Sangue come prezzo e come lavacro, perché fossimo purificati da tutti i peccati: per non svilirci, guardiamo a Lui, abbeveriamoci alla sua fonte, per essere preservati dal rischio della corruzione. E allora sperimenteremo la grazia di una trasformazione: noi rimarremo sempre poveri peccatori, ma il Sangue di Cristo ci libererà dai nostri peccati e ci restituirà la nostra dignità.  

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letterina 20150530

Trinità - Relazione

Giuda

"In principio era la relazione ... ".
Inizia così una tra le opere più importanti di Martin Buber (Il principio dialogico e altri saggi - Ed. San Paolo, 1993).  
Parafrasando l'inizio del Vangelo di Giovanni, l'in-principio della nostra esistenza ha radici in un incontro: il Verbo è Parola che esce dalla bocca del Padre.
E il parlare è il primo segnale di vita in una relazione. La matrice della nostra esistenza è fissata in questa meravigliosa capacità di chiamare per nome un altro. E di sentirci chiamare con il nostro nome. Il mio io si risveglia nella misura in cui è interpellato da un tu. Nessuno di noi può vivere senza l'altro. Come Dio, che nell'incarnazione ci ha rivelato che sono Uno e Tre, cioè relazione.
A immagine e somiglianza di Dio, anche noi siamo relazione. Alternativa non c'è. Pena il non esistere. Come in Dio: il Padre è Padre perché ha il Figlio. E il Figlio è Figlio perché ha il Padre. Lo Spirito è Amore perché il Padre e il Figlio si amano. lo sono io perché ho quel padre, quella madre, quei fratelli e quelle sorelle, quegli amici e quei nemici. Sono io perché sono di questo Dio Uno e Trino. “Se tu non mi parli sono come uno che scende nella fossa" grida l'orante (Salmo 28,1).
Rimaniamo in vita con un senso delle cose perché Qualcun Altro ci parla.
Il Cristianesimo ha rivelato al mondo la bellezza del tu. È’ la religione del dialogo, della reciprocità, del riconoscimento dell'altro come regalo. E come prova.  
Il tu come presenza inevitabile. E ineliminabile.
Nel riconoscimento dell’altro come un tu da ospitare è sintetizzato  tutto il percorso di crescita che ognuno di noi è chiamato a fare. Appena nati tutto è confinato al nostro io.
Poi, dare del tu a Dio ci ha insegnato a riconoscere nel tu del fratello un dono. Il mondo intorno a noi ha sete di profezia: è possibile vivere insieme “Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati” (Ef 4,4 )
 

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letterina 20150523

Un vuoto che parla

Giuda

Nel 2016 non ci saranno nuovi preti nella diocesi di Bergamo. Lo ha annunciato il Vescovo nel Consiglio presbiterale. Le ordinazioni sacerdotali rimangono, nelle nostre comunità, eventi di straordinario impatto. Le feste che si celebrano per i preti novelli sono, forse, quelle che riescono a dare meglio l'idea di Chiesa, della Chiesa concreta che è cresciuta in questa terra: «questa» Chiesa «qui». È in quell'occasione, infatti, che la gente di un paese si trova tutta per far festa all'amico diventato prete, tutti diversamente motivati per vivere quell'evento. Mai come in quella occasione la Chiesa è variegata e unita insieme.
Nel 2016: niente. Come sempre, la mancanza di parola parla. Anche questo vuoto parlerà moltissimo l'anno prossimo, ma comincia a parlare forte già adesso. E che cosa dice? Tante cose, naturalmente.
Intanto, la Chiesa è più povera e non di soldi e di strutture, ma di gente, di gente in genere e di questo particolare genere di gente che sono i preti.
Ora, è la gente che fa essere la Chiesa precisamente quello che è: «Chiesa di mattoni no, Chiesa di persone, sì», dice una canzone popolare che si canta nelle nostre chiese. Anzi, la prima cosa che balza agli occhi è proprio questa relativa povertà di persone - preti, religiosi, laici - e questa eccessiva ricchezza di strutture: chiese, oratori, case parrocchiali, case di riposo, scuole, case di vacanza, cinema ... e tanto altro. Non che quelle strutture fossero o siano un lusso inutile, certamente no. Erano i molti mattoni diventati necessari per le molte persone. Ma adesso che le persone sono di meno, i mattoni sono rimasti quelli dei tempi dell'abbondanza e appaiono ancora di più di quello che sono.
In questa situazione la Chiesa - per essere precisi: le singole Chiese, le parrocchie, le comunità cristiane locali - devono iniziare una difficile, necessaria «rieducazione». Quando i cristiani erano molti, bastavano pochi convinti perché si facesse almeno il necessario. Quando si è pochi, diventano necessari quasi tutti. In altre parole: una Chiesa diventata piccola o è più Chiesa o non è. Questo vale soprattutto in rapporto alle figure dei preti che, appunto, dopo essere diminuiti, adesso danno perfino l'impressione di non esserci più (questo è infatti il senso un po' straniante di un anno senza preti, come si annuncia essere il prossimo 2016).
Di fronte a una situazione così drastica si impone un'altrettanto drastica verità: le comunità cristiane potranno sopravvivere, se impareranno a fare a meno dei preti.
Inutile precisare che non è che si vuole fare a meno dei preti, ma che si deve. Per fare a meno dei preti, però, i primi a darsi da fare devono essere i preti. «Fare a meno» è un po' forte, ma dà l'idea (per la verità la storia di Chiese locali, lontane da noi: Corea, India riferisce di intere comunità cristiane che hanno conservato la fede, anche per secoli, senza preti).
È un po' forte l'espressione, dunque, ma non è peregrina. Si parla spesso del prete «padre», della paternità del prete e così via. Bene: tutti sanno che un buon padre è quello che sa crescere dei figli maturi, cioè dei figli che non hanno più bisogno di lui. Il buon padre, detto con parole un po' brusche, sa anche "morire". Proprio perché è padre, infatti, è contento della vita che ha dato agli altri, non di quella che ha trattenuto per sé. Dunque, mentre la Chiesa di Bergamo sta diventando povera di preti, potrebbe imparare, grazie anche all'azione dei molti preti generosi e capaci che ci sono, a essere ricca di tutto il resto.
E sarebbe, se la cosa, almeno un po', riuscisse, una straordinaria forma di rinascita.

don Alberto Carrara 

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